lunedì 21 dicembre 2009
lunedì 23 novembre 2009
IL ROVESCIO DEL DIRITTO E LA CALABRIA
Qualche sera fa, il dott. Nicola Gratteri ha partecipato ad un trasmissione televisiva portando in video la sua disarmante chiarezza. Ad una domanda se vi fosse, realmente, la volontà politica di sconfiggere la mafia, ha dato una risposta ad dir poco agghiacciante. Qualsiasi governo ( ammesso che negli ultimi anni vi sia stata alternanza in Italia) ha e ha avuto come scopo primario un potere giudiziario imbrigliato ( in modo che non si possa disturbare il manovratore) e una scuola inadeguata ( in modo che non si formino nuove generazioni colte e intellettualmente capaci di cogliere i significati reconditi delle “questioni dell’agenda politica”). Il dott. Gratteri è certamente uno di quelli che hanno inteso il proprio lavoro come un dovere e non come occasione di vivere bene nel senso che la sua funzione e il suo potere lo hanno esposto al rischio di perdere la vita e non ad essere in prima fila a teatro. Nessun compromesso onde consentire anche a suoi figli di vivere bene. Il suo linguaggio mediatico è diverso da altri, più semplicemente disarmante, più diretto; quasi quello di una discussione tra amici fidati nessun compromesso, messaggio semplice e diretto. Un attimo prima, aveva detto che nel territorio di sua competenza il capo mafia è capace di determinare qualsiasi cosa anche l’imbianchino che tinteggerà la casa di un quisque de populo che ha deciso di costruirsi o comprarsi un nuovo immobile. Enorme potenza delle organizzazioni mafiose. Questione criminale si dirà. In Calabria, tuttavia, non molto tempo fa, una famosa inchiesta oggi al vaglio della magistratura penale giudicante, disvelò un sistema diffuso dall’altra parte della società (quella non criminale sic!) per cui il potere era in grado di determinare consulenti, incarichi, vite da stabilizzare, investimenti da realizzare. Questione politica si dirà. In Calabria, in realtà, quella inchiesta e quei comportamenti ( la cui rilevanza penale non sono ovviamente di nostra competenza) hanno disvelato il vero problema di questa terra: non esistono, se non in forma minimale, spazi di libertà assoggettati alle norme del diritto se è vero come sembra che dal lato criminale esistono forme di pressione che, per ciò che qui interessa, impediscono a chi lavora bene di prosperare nel suo lavoro valendo come regola quella della appartenenza e, dal lato del potere esistono altrettante forme di pressione e di violazione delle norme del diritto valendo anche lì (seppure con aspetti meno pericolosi dal punto di vista criminale) la regola dell’appartenenza sopra il merito e le predette regole. Il lavoro privato, quello ciò sottratto alle due influenze, è minimale e si occupa delle briciole della torta. Questione meridionale si dirà. Si questione meridionale che, tuttavia, per tornare alla disarmante semplicità e chiarezza delle posizioni di Gratteri, porta a chiedersi del perché in tanti anni non si sia voluto capire che basterebbe applicare le regole, esistenti, per risolvere molti annosi problemi. Sottomissione al potere romano dicono le classi dirigenti calabresi. Anche su questo viene da dire che è un luogo comune poiché il politico nostrano, forte di ruoli o di rapporti ben consolidati con il potere centrale, critica la sua sudditanza dal potere romano ma crea sudditanza con il suo elettorato di riferimento in modo da potere contare su un gruppo consolidato di condizionamento che si esplica quasi come un giano bifronte in cui da un lato si sfrutta la forza elettorale verso il centro e dall’altro si sfrutta la contropartita del centro verso il gruppo di riferimento. Degenerazione della politica, male atavico delle classi dirigenti e delle genti meridionali. La situazione, in realtà, è del tutto diversa poiché essa, in realtà, è proprio il frutto della codificazione del principio del rovescio del diritto di cui esistono notevoli esempi proprio qui in Calabria.Rimanendo sull’esempio di Why not basta soffermarsi sulle regole costituzionali per il problema dell’accesso al lavoro. Sul punto, l’art. 97 recita testualmente “Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge. Tale norma va letta in sistema ( sistematicamente ndr) con l‘art. 51 a mente del quale Tutti i cittadini dell'uno o dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge e con l’art. 3, II° comma, Cost, E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.Dal quadro delle norme costituzionali, evidentemente cogenti anche in Calabria, si inferisce che al lavoro nelle pubbliche amministrazioni ( il c.d. posto fisso) si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge, e che è obbligo delle istituzioni della Repubblica ( che ovviamente non è un fatto astratto ma l’insieme degli uomini che ricoprono cariche istituzionali negli organi della Repubblica) garantire l’uguaglianza dei cittadini nell’accesso agli uffici pubblici nonché quello di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscano il pieno sviluppo anche economico della persona umana. Le regole del diritto quindi sono molto chiare sia per gli uomini che ricoprono ruoli istituzionali sia per i cittadini: i gruppi di potere che influiscono sull’accesso ai pubblici uffici e agli incarichi pubblici ( ovvero derivanti da investimenti di soldi pubblici) violano il dettato costituzionale; in altri termini violano la legge. Non ha rilevanza, almeno qui, stabilire se ciò ha rilevanza penale: ha certamente rilevanza costituzionale nel senso di essere certamente una prassi un comportamento contrario alle regole dettate dalla nostra carta costituzionale. Nella sua disarmante semplicità ( non semplicismo), si può affermare che interferire, almeno nel settore che interessa i soldi pubblici, sull’ingresso nel lavoro, la carriera, i guadagni, le condizioni di vita delle persone e dei suoi familiari è contrario alla nostra Costituzione. Tutto chiaro e condivisibile ? No, sbagliato, la codificazione della regola del rovescio del diritto porta ad affermare che raccomandare è un fatto banale quasi umanitario; quando si prova ad indagare ipotizzando voto di scambio o altre figure di reato, i rappresentanti del rovescio del diritto banalizzano il problema affermando che si tratta, in realtà di semplici raccomandazioni con finalità umanitarie. Verrebbe da chiedersi ma tutti i lavoratori a contratto, a termine ( per il diritto non per il rovescio), frutto di chiamate dirette non violano la Costituzione? La gratitudine che il selezionato tra migliaia di aspiranti prova per il suo amico politico non influenza le scelte del suo voto che dovrebbe essere libero? Tutto questo quadro non è chiara indicazione di violazione dei precetti costituzionali? Secondo i teorici del rovescio del diritto no o, quantomeno, ciò non rappresenta un problema visto che il cittadino elettore, anche sapendo che il politico tizio opera in questo modo lo legittima nuovamente con il suo voto libero. Su questo il legislatore ha scelto che il voto di scambio è punibile solo quando avviene in cambio di denaro e, si sa, che in Italia, figuriamoci in Calabria, ci si dimette o si lascia la politica solo dopo l’esecuzione, a volte implorata, di sentenze definitive afferenti a gravi reati penali. Questa piccola analisi, però, illumina le ragioni della speranza perché la diminuzione delle canches a disposizione dei nostri filantropici politici fa aumentare quelli fuori dai giochi e, soprattutto sembra avere prodotto, almeno qui in Calabria, non una illuminata elitè ma molti uomini e donne silenziose che nella loro vita quotidiana hanno deciso di dire che i teorici del rovescio del diritto in realtà violano la legge. Speriamo si continui a camminare gridano che il rovescio del diritto in realtà era un titolo ironico di un saggio sui mali della legge e non una regola di codificazione. Francesco Siciliano
martedì 22 settembre 2009
giovedì 10 settembre 2009
giovedì 18 giugno 2009
lunedì 8 giugno 2009
martedì 26 maggio 2009
giovedì 21 maggio 2009
mercoledì 20 maggio 2009
domenica 10 maggio 2009
giovedì 16 aprile 2009
LA LIBERTA' DI MANIFESTAZIONE DEL PENSIERO
Le recenti polemiche hanno posto all’attenzione dell’opinione pubblica il tema della libertà di manifestazione del pensiero – quantunque questa sia non agiografica per organi o uomini dello Stato – e, soprattutto, la garanzia di tale diritto costituzionalmente garantito all’interno della RAI che, per definizione, rappresenta la maggiore platea della vita democratica dell’Italia. Il tema è particolarmente spinoso e controverso da fare apparire speculativo l’intervento ma, in realtà, posta l’affermazione di molte voci autorevoli circa l’inizio di una nuova fase conciliativa nella vita italiana, è importante, invece, che si sottolinei ancora una volta la primazia della Costituzione nello Stato moderno rispetto alle maggioranza parlamentari di cui è espressione l’esecutivo atteso che l'Italia e' una Repubblica democratica, fondata sul lavoro e (NDR) la sovranita' appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. In altri termini il mio, come altri ben più autorevoli interventi, vuole provare ad affermare che la sovranità, in uno stato di diritto, non è della maggioranza parlamentare e governativa, ma del popolo italiano che esiste e resta a prescindere da chi governa. Il diritto alla libertà di manifestazione del pensiero si trova scandito nella Costituzione Repubblicana laddove viene individuato l’oggetto del diritto dei cittadini posto che la Corte Costituzionale già con sentenza 23 marzo 1968 n.11, intervenendo sulla legge professionali dei giornalisti, aveva sottolineato che tale legge disciplina l’esercizio della professione giornalistica e non l’uso del giornale o di altro mezzo come espressione di libera manifestazione di pensiero in modo che essa non tocca il diritto che a tutti l’art. 21 riconosce. L’oggetto del diritto è appunto la libertà di manifestazione del pensiero che comprende qualsiasi forma di espressione di idee, di opinioni e di notizie. In tema poi di limiti alla libertà dopo alcune controverse prese di posizione la Corte costituzionale ha chiarito il suo pensiero affermando espressamente che limiti alle libertà fondamentali sono ammissibili solo se fondati su beni di rilievo costituzionale e previsti dalla medesima Costituzione: quindi, limiti alla libertà di manifestazione del pensiero si possono rinvenire esclusivamente in beni di rilievo costituzionale. Ovviamente in tali limiti rientrano quelli derivanti da cosiddetti diritti della personalità (diritto alla riservatezza, all’onorabilità, alla reputazione, alla dignità sociale, nonché di natura civilistica quali il diritto d’autore e delle opere dell’ingegno) e quelli di natura pubblicistica – anche se di dubbia costituzionalità- (il prestigio del governo e della pubblica amministrazione, la sicurezza dello stato e della pubblica economia). Rimane, infine, il limite dell’ordine pubblico che rappresenta la chiave di volta della legittimità costituzionale di talune fattispecie di reato e di alcune ipotesi di segreto. Su tale limite, tuttavia, la tendenza della Corte è chiaramente nel senso di ritenere che per la configurabilità del limite costituito dalla necessità di preservare l’ordine pubblico da turbative violente di esso non sia sufficiente la critica anche aspra delle istituzioni, la prospettazione della necessità di mutarle, la stessa contestazione dell’assetto politico sul piano ideologico, ma occorra un incitamento all’azione e quindi un principio di azione e così di violenza contro l’ordine legalmente costituito come tale idoneo a porre questo in pericolo. Tracciata in tal modo la liberta di manifestazione del pensiero va detto che su questa si innesta quella della liberta di cronaca per arrivare alla libertà di informazione, si badi bene, sempre intesa come espressione della libertà di manifestazione del pensiero, e all’affermazione di un vero e proprio diritto all’informazione. Invero, la Corte Costituzionale ha più volte avuto modo di osservare che è codificato in Italia, a livello costituzionale, sia il lato attivo della libertà di manifestazione del pensiero come libertà di dare e divulgare notizie, opinioni e commenti che il lato passivo cioè dal punto di vista dei destinatari della manifestazione, come interesse generale, anch’esso indirettamente protetto dall’art. 21 alla informazione; il quale in un regime di libera democrazia, implica pluralità di fonti di informazione, libero accesso alle medesime, assenza di ingiustificati ostacoli legali, anche temporanei alla circolazione delle idee e delle notizie. Vediamo, quindi, il lato attivo e il lato passivo della libertà di informazione. Nel lato attivo, definito come libertà di informare si sottolinea la posizione di colui il quale diffonde presso il pubblico le notizie, i fatti e le informazioni mentre dal lato passivo, definito come libertà-diritto all’informazione, libertà-diritto di essere informati, si evidenzia la condizione dei destinatari dell’attività di informazione, del pubblico cioè a cui essa è rivolta. Iniziando dal lato attivo della libertà di espressione e di informazione si ritiene di stabilire una perfetta equivalenza tra il diritto di manifestare, il diritto di informare e il diritto di cronaca. Non ci si trova di fronte, infatti, a distinti diritti ma ad un'unica libertà il cui oggetto e il cui contenuto è perfettamente e integralmente ricompreso nell'art.21 in modo che la distinzione che si opera assume valore eminentemente terminologico e non sostanziale. Si è infatti affermato nell’ambito della descrizione del contenuto del diritto in parola che la garanzia costituzionale comprende non soltanto l’espressione pensiero ma anche le notizie e in genere le informazioni. Questa è la posizione della prevalente dottrina e cito Crisafulli, Mazziotti, Barile-Grassi, Zaccaria. La Corte costituzionale d’altra parte ha riconosciuto in varie sentenze la pari estensione della libertà di cronaca e la libertà di espressione e la questione di una maggiore o minore tutela della libertà di informazione si è posta con particolare enfasi per il diritto di cronaca nel cui caso la giurisprudenza ha ritenuto legittima la cronaca anche nel caso di un commento ingiurioso o diffamatorio in presenza dei requisiti della verità, dell’utilità sociale e della continenza. Ma la Corte Costituzionale si è occupata di chiarire un altro concetto fondamentale se cioè che l’art. 21 Cost garantisca IL DIRITTO DI ESSERE INFORMATI. Sul punto in dottrina si parla di risvolto passivo della libertà di espressione (Barile, Grassi) o al più in termini di diritto sociale che è una situazione chiaramente distinta dal diritto soggettivo vero e proprio. La Corte costituzionale d’altra parte è molto prudente a questo riguardo e se è vero che ha riconosciuto, in particolare nella fondamentale sentenza 15 giugno 1972 n.105 l’esistenza di un interesse generale all’informazione correlato ad un sistema di pluralismo di fonti informative, indirettamente protetto dall’art. 21 Cost. In dottrina, tuttavia, sembrano avere fondamento proprio le tesi dello Zaccaria, già Presidente della RAI, secondo le quali l’art. 21 riconosce un vero e proprio diritto del destinatario delle notizie alla ricezione delle stesse autonomamente azionabile dinanzi all’autorità giudiziaria. Dunque la nostra Costituzione, e in particolare l’art. 21, protegge in maniera diretta e quindi in forma di diritto soggettivo l’interesse del singolo a ricevere le notizie in questo senso allineandosi con i più aperti principi contenuti negli accordi internazionali. In questo scia si pone il diritto dell’amministrato di ricevere notizie sull’attività amministrativa in cui è coinvolto. Per concludere, infine, la parte c.d. tecnica del problema và segnalato che la Corte Costituzionale ha avuto modo di affermare che compito specifico del servizio pubblico radiotelevisivo è quello di dar voce a tutte, o almeno al maggior numero possibile di opinioni, tendenze, correnti di pensiero politiche, sociali e culturali presenti nella società onde agevolare la partecipazione dei cittadini allo sviluppo sociale e culturale del paese (sent. 826/1988). Questo, quindi, in estrema sintesi il quadro normativo e di commento dottrinario e giurisprudenziale al problema della libertà di manifestazione del pensiero intesa come libertà di informazione e diritto del cittadino all’informazione ex art. 21 Cost. Allo stesso modo chiara esplicitazione della Corte Costituzionale del ruolo del servizio pubblico radiotelevisivo ( finanziato dai cittadini) inteso come luogo dove, appunto i cittadini, devono al massimo trovare la loro forma di espressione dovendo esso servizio pubblico non limitare in alcun modo la libera espressione di gruppi, culture correnti di pensiero. In altri termini in nessuna norma di rango costituzionale ovvero di rango primario si trova affermato che all’interno del servizio pubblico non possa trovare spazio che critica anche aspramente gli organi dello Stato - salvo le tutele azionabili dinanzi alla Magistratura Ordinaria – né tantomeno che debbano essere rappresentate nel servizio pubblico le sole correnti di pensiero che rappresentano maggioranza o minoranza parlamentari: invero la Corte ha chiarito che compito primario del servizio pubblico è proprio quello di dare voce al maggior numero di opinioni, tendenze e correnti di pensiero non specificando partiti o coalizioni. Se queste sono le chiare posizioni normative dello Stato Italiano appare di dubbia collocazione l’affermazione di organi di governo che bocciano come non idonee al servizio pubblico voci fuori dal coro. Non sarebbe il caso che oltre “all’anglosassone” modello di rapporti tra maggioranza e opposizione si ricerchi un italico rispetto delle norme costituzionali e delle loro implicazioni pratiche secondo l’interpretazione datane dall’Organo preposto?
Avv. Francesco Siciliano
mercoledì 1 aprile 2009
martedì 31 marzo 2009
lunedì 23 marzo 2009
mercoledì 18 marzo 2009
giovedì 5 marzo 2009
giovedì 26 febbraio 2009
domenica 1 febbraio 2009
I Ragazzi del Movimento E Adesso Ammazzatecitutti
domenica 01 febbraio 2009
Ho letto negli scorsi giorni un comunicato della Giunta Centrale dell'Associazione Nazionale Magistrati, nel quale si guarda ai ragazzi di Locri ed ai familiari delle vittime di mafia come ad una via da seguire, un segnale importante da recepire e soddisfare; che dire: non è davvero poco essere citati dalla più grande organizzazione di categoria della Magistratura italiana.
Vengono però spontanee alcune domande (alle quali spero sarà data risposta, visto che “ci guardate”): 1) I ragazzi del Movimento erano in piazza un anno fa in difesa del Magistrato Luigi De Magistris, mentre veniva "espropriato" di fascicoli e funzioni. Voi dove guardavate allora?2) Durante l'esproprio alcuni "giudici" di De Magistris, prima del giudizio tecnico sui capi di incolpazione, avevano profuso del tutto inopinatamente anticipazioni di giudizi pubblici. Dove guardavate allora?3) Magistrati deputati all'esercizio dell'azione penale nei confronti dei colleghi del Distretto di Corte di Appello di Catanzaro, alcuni dei quali da Voi definiti autori di atti illegittimi in danno di De Magistris, sono stati aspramente criticati per atti e modi dal Vostro Presidente.Guardateci ancora e chiariteci, per cortesia, chi parla a nome dell'ANM: il Presidente o la Giunta Centrale? 4) Abbiamo difeso De Magistris non per giustizialismo o protagonismo ma solo perché in Calabria dopo 7 anni di Fondi Strutturali per un ammontare di oltre 13 Miliardi di Euro, il PIL Calabrese non ne risente e perchè, purtroppo, quei 13 Miliardi di Euro non hanno avuto lo stesso effetto che somme anche inferiori hanno avuto sull'Irlanda e sulla Spagna. Continuate a guardarci, facendoci vedere sancito il controllo dell'applicazione della legge, espletato da tutti i Vostri iscritti che esercitano funzioni giurisdizionali in Calabria. Non fateci vedere che la legge, forse, può essere "diversa" seconda della notabilità di chi la viola.
Francesco Siciliano
venerdì 23 gennaio 2009
«quod principi placuit legis habet vigorem» (ciò che piace al principe ha valore di legge) (Ulpiano (II-III secolo d.C.).
Gabriella Nuzzi lascia l’A.N.M.
Pubblichiamo la lettera con la quale la dott.ssa Gabriella Nuzzi, vittima dei provvedimenti adottati dal C.S.M. lunedì scorso comunica al presidente dell’A.N.M. le proprie dimissioni dall’Associazione.
Alla Associazione Nazionale Magistrati - ROMA
Signor Presidente,
Le comunico, con questa mia, l’irrevocabile decisione di lasciare l’Associazione Nazionale Magistrati.
Il plauso da Lei pubblicamente reso all’ingiustizia subita, per mano politica, da noi Magistrati della Procura della Repubblica di Salerno è per me insopportabilmente oltraggioso.
Oltraggioso per la mia dignità di Persona e di essere Magistrato.
Sono stata, nel generale vile silenzio, pubblicamente ingiuriata; incolpata di ignoranza, negligenza, spregiudicatezza, assenza del senso delle istituzioni; infine, allontanata dalla mia sede e privata delle funzioni inquirenti, così, in un battito di ciglia, sulla base del nulla giuridico e di un processo sommario.
Per bocca sua e dei suoi amici e colleghi, la posizione dell’Associazione era già nota, sin dall’inizio.
Quale la colpa? Avere, contrariamente alla profusa apparenza, doverosamente adottato ed eseguito atti giudiziari legittimi e necessari, tali ritenuti nelle sedi giurisdizionali competenti.
Avere risposto ad istanze di verità e di giustizia. Avere accertato una sconcertante realtà che, però, doveva rimanere occultata.
Né lei, né alcuno dei componenti dell’associazione che oggi degnamente rappresenta ha sentito l’esigenza di capire e spiegare ciò che è davvero accaduto, la gravità e drammaticità di una vicenda che chiama a riflessioni profonde l’intera Magistratura, sul suo passato, su ciò che è, sul suo futuro; e non certo nell’interesse personale del singolo o del suo sponsor associativo, ma in forza di una superiore ragione ideale, che è – o dovrebbe essere – costantemente e perennemente viva nella coscienza di ogni Magistrato: la ricerca della verità.
Più facile far finta di credere alla menzogna: il conflitto, la guerra tra Procure, la isolata follia di “schegge impazzite”.
Il disordine desta scandalo: immediatamente va sedato e severamente punito.
Il popolo saprà che è giusto così.
E il sacrificio di pochi varrà la Ragion di Stato.
L’Associazione non intende entrare nel merito. Chiuso.
Nel dolore di questi giorni, Signor Presidente, il mio pensiero corre alle solenni parole che da Lei (secondo quanto riportato dalla stampa) sarebbero state pubblicamente pronunciate pochi attimi dopo l’esemplare “condanna”: “Il sistema dimostra di avere gli anticorpi”.
Dunque, il sistema, ancora una volta, ha dimostrato di saper funzionare.
Mi chiedo, allora, inquieta, a quale “sistema” Lei faccia riferimento.
Quale il “sistema” di cui si sente così orgogliosamente rappresentante e garante.
Un “sistema” che non è in grado di assicurare l’osservanza minima delle regole del vivere civile, l’applicazione e l’esecuzione delle pene?
Un “sistema” in cui vana è resa anche l’affermazione giurisdizionale dei fondamentali diritti dell’essere umano; ove le istanze dei più deboli sono oppresse e calpestato il dolore di chi ancora piange le vittime di sangue?
Un “sistema” in cui l’impegno e il sacrificio silente dei singoli è schiacciato dal peso di una macchina infernale, dagli ingranaggi vetusti ed ormai irrimediabilmente inceppati?
Un “sistema” asservito agli interessi del potere, nel quale è più conveniente rinchiudere la verità in polverosi cassetti e continuare a costellare la carriera di brillanti successi?
Mi dica, Signor Presidente, quali sarebbero gli anticorpi che esso è in grado di generare? Punizioni esemplari a chi è ligio e coraggioso e impunità a chi palesemente delinque?
E quali i virus?
E mi spieghi, ancora, quale sarebbe “il modello di magistrato adeguato al ruolo costituzionale e alla rilevanza degli interessi coinvolti dall’esercizio della giurisdizione” che l’Associazione intenderebbe promuovere?
Ora, il “sistema” che io vedo non è affatto in grado di saper funzionare.
Al contrario, esso è malato, moribondo, affetto da un cancro incurabile, che lo condurrà inesorabilmente alla morte.
E io non voglio farne parte, perché sono viva e voglio costruire qualcosa di buono per i nostri figli.
Ho giurato fedeltà al solo Ordine Giudiziario e allo Stato della Repubblica Italiana.
La repentina violenza con la quale, in risposta ad un gradimento politico, si è sommariamente decisa la privazione delle funzioni inquirenti e l’allontanamento da inchieste in pieno svolgimento nei confronti di Magistrati che hanno solo adempiuto ai propri doveri, rende, francamente, assai sconcertanti i vostri stanchi e vuoti proclami, ormai recitati solo a voi stessi, come in uno specchio spaccato.
Mentre siete distratti dalla visione di qualche accattivante miraggio, faccio un fischio e vi dico che qui sono in gioco i principi dell’autonomia e dell’indipendenza della Giurisdizione.
Non gli orticelli privati.
Non vale mai la pena calpestare e lasciar calpestare la dignità degli esseri umani.
Per quanto mi riguarda, so che saprò adempiere con la stessa forza, onestà e professionalità anche funzioni diverse da quelle che mi sono state ingiustamente strappate, nel rispetto assoluto, come sempre, dei principi costituzionali, primo tra tutti quello per cui la Legge deve essere eguale per deboli e potenti.
So di avere accanto le coscienze forti e pure di chi ancora oggi, nonostante tutto, crede e combatte quotidianamente per l’affermazione della legalità.
Ed è per essa che continuerò sempre ad amare ed onorare profondamente questo lavoro.
Signor Presidente, continui a rappresentare se stesso e questa Associazione.
Io preferisco rappresentarmi da sola.
Dott.ssa Gabriella NUZZI
Magistrato
Avv. Francesco Siciliano
Taci. Su le soglie del bosco non odo parole che dici umane; ma odoparole più nuove che parlano gocciole e foglie lontane. Ascolta. Piove ............su i nostri volti silvani, piove sulle nostre mani ignude, sui nostri vestimenti leggieri, su i freschi pensieri che l'anima schiude novella,su la favola bella che ieri m'illuse, che oggi t'illude,o Ermione.
Hanno ragione, hanno ragione mi han detto:"E' vecchio tutto quello che lei fa, parli di donne prostituzione, di questo han voglia se non l'ha capito già" E che gli dico:"Guardi non posso, io quando ho amato ho amato dentro gli occhi suoi, magari anche fra le sue braccia ma ho sempre pianto per la sua felicità"...............Fatti pagare, fatti valere più abbassi il capo più ti dicono di si e se hai le mani sporche che importa tienile chiuse e nessuno lo saprà
..............e tante tante altre strofe pensieri parole.
Io dico grazie a chi, per sentire, oltre che per dovere, pensa che la legalità sia un valore,pensa che la legge sia uguale per tutti; a chi pensa e sogna che non conta la posta in gioco ma le regole scritte nella LEGGE.Grazie a chi non vuole arrendersi alla regola «quod principi placuit legis habet vigorem» (ciò che piace al principe ha valore di legge) (Ulpiano (II-III secolo d.C.). Questa norma non è scritta ma applicata e tutti noi guardando i nostri figli abbiamo l'obbligo di continuare a gridare che non può essere nè applicata nè scritta
martedì 20 gennaio 2009
L’ISTITUTO DELLE ASTENSIONI E DELLA RICUSAZIONE
L’ISTITUTO DELLE ASTENSIONI E DELLA RICUSAZIONE EX ARTICOLI 36 E 37 C.P.P., IL C.D. INDIRIETTO INTERESSE DEL GIUDICE E IL TANTO AGOGNATO E RAGGIUNTO PRINCIPIO DEL GIUSTO PROCESSO. Le cronache giornalistiche degli ultimi giorni raccontano che l’incolpato Procuratore di Salerno abbia presentato istanza di ricusazione – sia personalmente sia a mezzo dei suoi difensori – di alcuni componenti della Sezione Disciplinare del CSM chiamata a pronunciarsi sulla richiesta di un suo trasferimento cautelare e ciò apprendo dai link poiché i predetti componenti della Sezione Disciplinare del CSM già avevano sia espresso convincimento in ordine alla “bontà” delle indagini del dott. De Magistris ( bontà, di contro, riproposta seppur secondo un’altra ottica con l’indagine da cui è promanata l’ormai nota “dichiarazione di guerra” – nota ai meno come sequestro presso la Procura Generale di Catanzaro – a cui tra l’altro sembra essere seguita una ratifica di altri avamposti situati – seppur con funzioni di Giudici del Riesame – nella medesima “postazione di battaglia”) attraverso una res judicata sia concluso le audizioni per le ipotesi di incompatibilità ambientale di cui all’art. 2 del R.D.L. 31 maggio 1946 n. 511 stabilendo un giudizio di merito sulla vicenda oggetto dell’atto di incolpazione. Sempre attraverso le precitate fonti si apprende che l’istanza è stata rigettata perché inammissibile attesa la sua infondatezza(?)( mi si permetta la domanda è ammissibile e infondata o inammissibile?) posto che: a) i predetti componenti non potevano avere un interesse giuridicamente rilevante; b) opinare diversamente porterebbe ad una paralisi dell’azione disciplinare nei confronti dell’incolpato; c) è perfettamente compatibile la funzione amministrativa di componente di commissione con la funzione giurisdizionale di componente del Plenum. Rispetto alla questione, mi permetto molto sommessamente di avanzare le seguenti considerazioni. Già coevemente alla entrata in vigore della Costituzione Repubblicana uno dei padri fondatori del processo penale moderno, anticipando concetti che hanno costituito per così dire l'ossatura della successiva giurisprudenza costituzionale, scriveva: "Un'altra esigenza implicita nel concetto del giudice è che questi giudichi le parti, cioè un altro da sé e non sé medesimo. Ora un giudizio intorno a sé medesimo, oltre che intorno alle parti, ricorre ogni qualvolta un giudice sia chiamato a giudicare nuovamente intorno a un'imputazione, sulla quale abbia giudicato: egli non potrebbe, infatti, giudicarne ancora senza giudicare se la prima volta abbia o non abbia bene giudicato. Anche a questo proposito un alto grado di moralità può certo ottenere dal giudice un giudizio intorno a sé stesso e quindi, ove occorra, la correzione del suo errore; ma [...] è prudente evitare il rischio che un simile giudizio porta con sé".( Cfr. F. Carnelutti). Il sistema, quindi, ha sin da subito, anche in tempi di processo non retto dal principio Costituzionale - ottenuto con grande clamore dai garantisti moderni - del c.d. “giusto processo” avvertito l’esigenza dell’imparzialità del Giudice e, soprattutto, della necessità che tale situazione sia garantita oltre misura anche attraverso la previsione di ipotesi di astensione del Giudice qualora la sua presenza possa solo incrinare la convinzione dell’imputato di trovarsi di fronte ad un Giudice imparziale (Art. 6 -Diritto ad un processo equo- 1. Ogni persona ha diritto ad un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti a un tribunale indipendente e imparziale costituito per legge, al fine della determinazione sia dei suoi diritti e dei suoi doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che gli venga rivolta). Sul punto, tuttavia, giova provare ad essere maggiormente tecnici posto che ovviamente non ogni lamentela dell’imputato circa la mancanza di imparzialità del suo Giudice può condurre alla ricusazione del Giudice. Limitandoci alle specifiche questioni poste dal caso concreto, pertanto, giova limitarsi ai concetti di interesse nel procedimento ( ipotesi di cui alla lettera a) art. 36 c.p.p.) connesso a quello di giusto processo che deve necessariamente far si che “ogni processo si svolg(e)a nel contradditorio tra le parti, in condizioni di parita', davanti a giudice terzo e imparziale”. Tale ultimo concetto di rango costituzionale è stato il cardine attraverso cui la Corte Costituzionale, con sentenze additive, è intervenuta più volte negli ultimi anni per indicare tutte le ipotesi in cui una mancata previsione di obbligo di astensione – cui è connesso il diritto di ricusazione della parte – rendesse non conforme al precitato principio costituzionale una norma di rito di rango ordinario. In questa direzione illuminati sono state la Sentenza n.432 del 1995 dove, tra l’altro, si è avuto modo di affermare che” questa Corte è stata chiamata più volte ad esaminare la materia dell'incompatibilità ed ha avuto occasione di enucleare alcuni principi di base i quali - - unitamente alla convinzione di dover affermare un più pregnante significato dei valori costituzionali del giusto processo (e del diritto di difesa che ne è componente essenziale), ed all'intervenuto mutamento del quadro normativo a seguito della recente legge 8 agosto 1995, n. 332, la quale, accentuando ancor più il carattere di eccezionalità dei provvedimenti limitativi della libertà personale disposti prima della condanna, comporta indubbiamente una maggior incisività dell'apprezzamento del giudice sul punto -- si pongono come utili termini di raffronto e consentono di pervenire ora a diversa conclusione. 4. -- In linea preliminare va sottolineato che l'analisi del problema non si esaurisce nell'esame della differenza tra valutazioni di tipo indiziario, che il giudice compie in sede di indagini preliminari, e giudizio sul merito dell'accusa all'esito del dibattimento, ma deve anche considerare, più specificamente, la possibilità che alcuni apprezzamenti sui risultati delle indagini preliminari determinino un'anticipazione di giudizio suscettibile di minare l'imparzialità del giudice. Ai sensi del comma 1 dell'art. 273 del codice di procedura penale la prima condizione generale per l'emissione di misure cautelari personali è l'apprezzamento di "gravi indizi di colpevolezza" a carico dell'imputato. È evidente che la norma può esprimersi solo in termini di "indizi" per l'ovvio motivo che tutti gli elementi raccolti nella fase delle indagini preliminari, sia a favore che contro l'imputato, non hanno ancora avuto riscontro nel contraddittorio dibattimentale; è altrettanto chiaro, però, che, ai fini che qui interessano, detti "indizi" vengono comunque ritenuti idonei a dimostrare una qual certa fondatezza dell'accusa, almeno fino all'emergere, in dibattimento, di nuovi, ed eventuali, elementi in contrario avviso. Neppure è certa la fase dibattimentale se l'imputato chiede il "patteggiamento" o il giudizio abbreviato. In tali casi è ancor più evidente che i medesimi elementi che nella fase delle indagini erano semplici indizi vengono sostanzialmente apprezzati come prove. Ora, se è vero che rimangono non equiparabili situazioni processuali sicuramente diverse, quali quella della decisione circa l'applicazione di una misura cautelare personale e quella della decisione di merito sulla fondatezza dell'accusa (caratterizzata, quest'ultima, dall'esigenza di individuazione di prove certe circa la sussistenza del fatto e la commissione dello stesso da parte dell'imputato), nondimeno occorre prendere atto che i "gravi indizi di colpevolezza " richiesti dall'art.273, comma 1, per l'applicabilità delle misure cautelari si so stanziano pur sempre in una serie di elementi probatori individuati nelle indagini preliminari e idonei a fornire una consistente e ragionevole probabilità di colpevolezza dell'indagato. Più in particolare, la giurisprudenza della Corte di cassazione ha sottolineato che il concetto di "gravità" degli indizi (certamente più rigoroso di quello di "sufficienza" richiesto nel codice previgente) postula una obiettiva precisione dei singoli elementi indizianti che, nel loro complesso, consentono di pervenire logicamente ad un giudizio che, pur senza raggiungere il grado di certezza richiesto per la condanna, sia di alta probabilità dell'esistenza del reato e della sua attribuibilità all'indagato; indizi, quindi, capaci di resistere ad interpretazioni alternative. A ciò si aggiunga che, ai sensi dell'art. 292, lett.c), il giudice è tenuto ad esporre con adeguata motivazione gli indizi che giustificano in concreto la misura disposta (con l'indicazione degli elementi di fatto da cui sono desunti e dei motivi per i quali essi assumono rilevanza), ed inoltre -- elemento di sostanziale importanza -- che l'applicazione della misura cautelare comporta una valutazione negativa non solo circa l'esistenza di condizioni legittimanti il proscioglimento, ex art.273, comma 2, (cause di giustificazione, di non punibilità, di estinzione del reato o della pena), ma anche in ordine alla possibilità di ottenere con la sentenza (che evidentemente si ritiene di condanna) la sospensione condizionale della pena (art. 275, comma 2 bis, introdotto dalla citata legge n. 332 del 1995). 5. -- Tali essendo, in sintesi, le valutazioni che il giudice per le indagini preliminari deve compiere allorquando disponga una misura cautelare, si deve riconoscere che detta attività comporta la formulazione di un giudizio non di mera legittimità ma di merito (sia pure prognostico e allo stato degli atti) sulla colpevolezza dell'imputato; giudizio analogo, ai fini che qui interessano, alle ipotesi già esaminate da questa Corte nelle sentenze nn. 124 e 186 del 1992. In tali decisioni, infatti, è già stato affermato il principio che una valutazione di merito circa l'idoneità delle risultanze delle indagini preliminari a fondare un giudizio di responsabilità dell'imputato vale a radicare l'incompatibilità, e questa è stata riconosciuta sussistere nell' ipotesi del giudice per le indagini preliminari che abbia rigettato la richiesta di applicazione di pena concordata.”. Così come la successiva sentenza 131 del 1996 in cui la Corte si è preoccupata di stabilire delle lineee guida affermando che “con la sentenza n. 432 del 1995 - alla quale tutte le ordinanze di rimessione fanno espresso riferimento e che costituisce precedente specifico per la decisione della questione in esame - questa Corte ha ritenuto che i principi in precedenza affermati valgano non solo nel rapporto tra fasi diverse del giudizio ma anche nel rapporto tra assunzione di provvedimenti cautelari personali e giudizio sul merito dell'imputazione. Superando il suo precedente orientamento, volto a configurare il merito dell'accusa e le cautele come àmbiti distinti per oggetto e funzione e a escludere conseguentemente che le pronunce sulla libertà personale, comprese quelle assunte in sede di riesame o di appello, comportassero valutazioni idonee a tradursi in un giudizio che interferisce con quello sul merito della res judicanda, tale da compromettere (o far apparire compromessa) l'imparzialità della decisione conclusiva sulla responsabilità dell'imputato (sentenza n. 124 del 1992; ordinanza n. 516 del 1991 e sentenza n. 502 del 1991), questa Corte ha considerato viceversa che tale pregiudizio possa verificarsi, in quanto le pronunce cautelari presuppongono sempre un giudizio prognostico di segno positivo sulla responsabilità, ancorché basato su indizi e non ancora su prove. Sull'anzidetto sviluppo giurisprudenziale è stato influente il mutamento del quadro normativo determinato non solo dalla entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, ma anche dalla legge 8 agosto 1995, n. 332. La nuova disciplina oggi in vigore, per potenziare le garanzie della libertà personale nel processo penale e valorizzare l'eccezionalità delle misure restrittive della stessa, richiede un giudizio probabilistico in ordine alla colpevolezza, assai più approfondito che non in passato e tale da superare, ai fini della valutazione circa l'esistenza del pregiudizio in ordine alla decisione sulla responsabilità, la distinzione tra valutazioni di tipo indiziario, rilevanti in sede di cautele, e giudizio sul merito dell'accusa in sede dibattimentale. Il comma 1 dell'art. 273 cod. proc. pen. stabilisce, come presupposto comune a tutte le misure cautelari personali che possono essere disposte nei casi previsti dall'art. 274 cod. proc. pen., l'esistenza di "gravi indizi di colpevolezza" (in ciò differenziandosi dalla previsione dei "sufficienti indizi", contenuta nel codice previgente) e l'art. 292, comma 2, lettera c), cod. proc. pen. richiede al giudice che dispone la misura cautelare di esporre "gli indizi che giustificano in concreto la misura disposta, con l'indicazione degli elementi di fatto da cui sono desunti e dei motivi per i quali essi assumono rilevanza". E, alla pregnanza delle valutazioni richieste al fine di pervenire alla misura, con la riforma contenuta nella citata legge del 1995, si è aggiunta l'esigenza che il giudice esponga altresì "i motivi per i quali sono stati ritenuti non rilevanti gli elementi di prova forniti dalla difesa" (art. 292, comma 2, lettera c-bis, cod. proc. pen.) e, oltre alla valutazione negativa circa l'esistenza di condizioni che legittimerebbero il proscioglimento in conseguenza dell'esistenza di cause di giustificazione, di non punibilità, di estinzione del reato o della pena (art. 273, comma 2, cod. proc. pen.), si è espressamente prevista altresì la valutazione circa l'impossibilità per l'imputato di ottenere, con la sentenza di condanna (nemmeno indicata come "eventuale"), la sospensione condizionale della pena (art. 275, comma 2-bis, introdotto dalla ricordata riforma del 1995). In questo quadro, così mutato rispetto al codice previgente e anche rispetto alla formulazione originaria del codice attuale - indipendentemente dal rapporto funzionale e strutturale esistente tra procedimenti cautelari e processo di cognizione - questa Corte, guardando alla sostanza, ha riconosciuto che le valutazioni compiute dal giudice in relazione all'adozione di una misura cautelare personale comportano un pregiudizio sul merito dell'accusa: tali valutazioni infatti, secondo le norme vigenti, devono indurre il giudice a ritenere l'esistenza di una ragionevole e consistente probabilità di colpevolezza e quindi di condanna dell'imputato e, addirittura, di condanna ad una pena superiore a quella che consente la concessione della sospensione condizionale della pena. La garanzia della libertà personale, secondo la linea direttiva della Costituzione, richiede che le misure limitatrici siano prese con il massimo di prudenza e, per questo, si prevede il suddetto, incisivo giudizio prognostico, tanto lontano da una sommaria delibazione e tanto prossimo a un giudizio di colpevolezza, sia pure presuntivo, poiché condotto "allo stato degli atti" e non su prove ma su indizi. Ma proprio l'intensità di tale garanzia in sede cautelare, se non ne seguisse il divieto, per il giudice che si è pronunciato in quella sede, di prendere parte al giudizio sul merito dell'accusa, si tradurrebbe in un grave pregiudizio per l'imputato: il favor libertatis che giustifica tanto rigore in sede cautelare, si rovescerebbe infatti, proprio a causa di tale rigore, in prevenzione in danno dell'imputato in sede di giudizio. 3.3. -- Sulla base delle suddette argomentazioni, questa Corte è pervenuta, nella citata sentenza n. 432 del 1995, alla dichiarazione di incostituzionalità dell'art. 34, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedeva che non potesse partecipare al giudizio dibattimentale il giudice per le indagini preliminari il quale avesse applicato una misura cautelare personale nei confronti dell'imputato. Rispetto alla questione allora così decisa, quella ora da decidere presenta innegabili analogie. Secondo l'art. 309 cod. proc. pen., il tribunale del riesame (comma 7) è investito di una cognizione piena, di legittimità e di merito, in ordine all'ordinanza che dispone la misura cautelare personale (comma 1). Il tribunale (comma 6) non è vincolato alle prospettazioni di parte, le quali possono anche mancare, essendo possibile che esso sia chiamato semplicemente a rifare integralmente le valutazioni in precedenza affidate al giudice che ha adottato l'ordinanza cautelare. Conseguentemente, il collegio del riesame è messo nelle condizioni di conoscere tutti gli elementi su cui si è fondata la richiesta del pubblico ministero al giudice per ottenere la misura cautelare in questione, nonché tutti gli elementi, anche sopravvenuti, a favore dell'imputato e le eventuali deduzioni e memorie difensive ch'egli abbia depositate. Le determinazioni che esso può prendere, conformemente alla natura del riesame, spaziano dall'annullamento del provvedimento impugnato, alla riforma in senso favorevole all'imputato anche per motivi diversi da quelli enunciati, alla conferma per le stesse o per altre ragioni, diverse da quelle indicate nella motivazione del provvedimento oggetto del riesame (comma 9). Nessun dubbio, quindi, che il riesame dell'atto che dispone la misura cautelare comporta valutazioni di merito del medesimo genere di quelle che, compiute dal giudice per le indagini preliminari, hanno indotto questa Corte, nella sentenza n. 432 del 1995, a dichiarare l'incostituzionalità della mancata previsione della relativa causa di incompatibilità nell'art. 34, comma 2, cod. proc. pen. 3.4. -- Quanto all'appello contro le ordinanze in materia di misure cautelari personali, esso è configurato dall'art. 310 cod. proc. pen. come strumento di controllo sulle ordinanze che provvedono al riguardo, attivabile tanto dal pubblico ministero quanto dall'imputato e dal suo difensore. A differenza del riesame - rimedio processuale dal significato "unidirezionale" in quanto previsto solo su iniziativa e nell'interesse dell'imputato - l'appello è accordato per far valere tanto le ragioni della cautela (su iniziativa del pubblico ministero), quanto le ragioni della libertà (su iniziativa dell'imputato e del suo difensore) le quali non abbiano avuto successo in prima istanza. Inoltre, mentre la richiesta di riesame conferisce al tribunale la cognizione piena sul provvedimento cautelare, l'effetto devolutivo dell'appello è limitato dai motivi contestualmente enunciati (art. 310, comma 1, cod. proc. pen.). Le suddette differenze tra il giudizio di riesame e il giudizio d'appello non escludono peraltro che, anche nel secondo caso, il tribunale competente (lo stesso del riesame, a norma del comma 2 dell'art. 310) possa essere investito, a seconda dei motivi dell'appello, della valutazione di profili di merito che attengono all'esistenza di "gravi indizi di colpevolezza" ovvero alla sussistenza di una o più esigenze cautelari, tra quelle indicate dall'art. 274 cod. proc. pen., elementi tutti che costituiscono le condizioni in presenza delle quali la misura può essere legittimamente disposta. Pertanto, sotto questo profilo, anche nei confronti dei giudici che abbiano preso parte al collegio del tribunale che si è espresso in sede di appello contro ordinanze in tema di misure cautelari personali valgono le medesime sopraddette ragioni di incompatibilità alla partecipazione alla funzione di giudizio sul merito dell'accusa. La dichiarazione d'incostituzionalità dell'art. 34, comma 2, cod. proc. pen. che si rende dunque necessaria in relazione alla mancata previsione della incompatibilità alla partecipazione al giudizio del giudice che abbia partecipato al collegio investito dell'appello nei confronti delle ordinanze in materia di misure cautelari personali riguardanti chi si trovi a essere imputato in tale giudizio, deve essere tuttavia limitata, alla stregua della consolidata giurisprudenza di questa Corte sopra richiamata che esclude il sorgere dell'incompatibilità nel caso in cui il primo giudizio abbia riguardato aspetti solo formali della causa, al caso in cui il tribunale dell'appello sia stato chiamato a sindacare valutazioni sostanziali, precedentemente compiute dal giudice che ha disposto sulla misura. Pertanto, non sussiste ragione di estendere l'incompatibilità ai casi in cui, in sede d'appello, il tribunale si sia pronunciato soltanto su aspetti meramente formali dell'ordinanza che dispone sulla misura cautelare personale, senza influenza sull'esistenza degli indizi di colpevolezza ovvero sulla sussistenza delle esigenze cautelari le quali possono, comunque, riflettersi sulla posizione sostanziale dell'imputato nel giudizio. In tali eventualità, le valutazioni relative al merito dell'ipotesi accusatoria restano del tutto estranee al giudizio del tribunale e non vi è ragione di ritenere che il giudice si sia preformato un giudizio di merito capace di pregiudicare l'imparzialità della decisione conclusiva del processo. 4. -- Nell'assumere la sua decisione, questa Corte è pienamente consapevole delle difficoltà di ordine pratico che, come conseguenza della propria giurisprudenza, possono derivare alla formazione concreta degli organi giudicanti. Ciò, tuttavia, non la esime dalla propria essenziale funzione di garanzia, quando se ne richieda l'intervento in presenza di norme costituzionalmente illegittime. Alle anzidette difficoltà, con appropriati interventi e riforme di ordine normativo e organizzativo, devono porre rimedio altre istanze costituzionali alle quali appartengono i relativi doveri e le relative responsabilità. Per questo, nel pervenire alla presente, ulteriore pronuncia d'incostituzionalità in difesa del principio del giusto processo e dell'imparzialità e della terzietà del giudice, questa Corte deve rivolgere, anzi rinnovare (v. sentenza n. 496 del 1990) un pressante invito agli organi competenti affinché pongano mano con urgenza a quegli interventi e a quelle riforme che gli indisponibili principi della Costituzione richiedono in ordine al buon funzionamento della giurisdizione penale.
In particolare nell’ultima decisione, la Corte Costituzionale, a differenza di quanto argomentato dal CSM nel provvedimento di rigetto del 10 gennaio 2009, pur rendendosi conto delle notevoli difficoltà organizzative che la sua decisione avrebbe provocato, palesa di essere obbligata al rispetto della sua funzione di Giudice delle Leggi e di dovere quindi necessariamente fare applicazione del principio costituzionale del giusto processo e espungere dal mondo del diritto (ovvero manipolare in senso conforme alla Costituzione) quelle norme che contrastano con i principi costituzionali. In altri termini, l’eventuale fondatezza dell’istanza di ricusazione non può essere rigettata sulla base del principio che ciò comporterebbe la paralisi dell’azione disciplinare poiché a tale eventualità deve porre rimedio l’organo competente attraverso i meccanismi di legge. In ogni caso la Corte Costituzionale con sentenza n. 283 del 2000 sembra esplicitare ex professo gli istituti dell’astensione-ricusazione in rapporto alla tutela dell’imparzialità del Giudice affermando espressamente . “la Corte - nel ribadire che la disciplina in materia deve essere comunque idonea ad evitare che il giudice chiamato a svolgere funzioni di giudizio possa essere, o anche solo apparire, condizionato da precedenti valutazioni espresse sulla medesima res iudicanda, tali da esporlo alla forza della prevenzione derivante dalle attività giudiziarie precedentemente svolte - ebbe in particolare a rilevare che la "scelta del legislatore di qualificare una situazione come causa di incompatibilità, ovvero di astensione e di ricusazione, discende [...] dalla possibilità o dalla impossibilità di valutarne preventivamente e in astratto l'effetto pregiudicante per l'imparzialità del giudice penale" (sentenza n. 308 del 1997). Le situazioni pregiudizievoli per l'imparzialità del giudice riconducibili all'istituto dell'incompatibilità operano infatti all'interno del medesimo procedimento in cui interviene la funzione pregiudicata e si riferiscono ad atti o funzioni che hanno "di per sé effetto pregiudicante, a prescindere dallo specifico contenuto dell'atto stesso o dalle modalità con cui la funzione è stata esercitata" (sentenza n. 308 del 1997); le incompatibilità trovano, dunque, la loro ratio nell'esigenza obiettiva, attinente alla stessa logica del processo, "di preservare l'autonomia e la distinzione della funzione giudicante, in evidente relazione all'esigenza di garanzia dell'imparzialità di quest'ultima, rispetto ad attività compiute in gradi e fasi anteriori del medesimo processo" (sentenza n. 306 del 1997). Ne deriva che le situazioni di incompatibilità, essendo astrattamente tipicizzate dal legislatore, sono prevedibili e quindi prevenibili e, in quanto tali, postulano un onere di organizzare preventivamente la terzietà del giudice, che viene così a "manifestarsi, prima ancora che come diritto delle parti ad un giudice terzo, come modo di essere della giurisdizione nella sua oggettività" (sentenza n. 307 del 1997). Il carattere di fondo delle situazioni di incompatibilità - di essere, cioè, sempre riferite a rapporti che interessano il medesimo procedimento - non è contraddetto, come prendono atto gli stessi rimettenti, dalla sentenza n. 371 del 1996: tale decisione si riferisce, infatti, alla specifica ipotesi in cui la valutazione pregiudicante, pur essendo stata espressa in un procedimento penale formalmente diverso, riguarda una vicenda processuale sostanzialmente unitaria, che avrebbe potuto, ed anzi normalmente avrebbe dovuto essere giudicata nel medesimo contesto processuale (v. in tale senso sentenze nn. 306, 307 e 308 del 1997, nonché, per un'ipotesi analoga, in cui la precedente valutazione pregiudicante è stata espressa in diverso procedimento avente per oggetto il medesimo fatto storico successivamente addebitato allo stesso imputato, sentenza n. 241 del 1999). Gli istituti della astensione-ricusazione sono invece caratterizzati dal riferirsi a situazioni pregiudizievoli per l'imparzialità della funzione giudicante - ad eccezione, evidentemente, di quelle che hanno come presupposto i casi di incompatibilità - che normalmente preesistono al procedimento (art. 36, comma 1, lettere a, b, d, e, f, cod. proc. pen.), ovvero si collocano comunque al di fuori di esso (art. 36, comma 1, lettera c, cod. proc. pen.). Anche l'ipotesi di ricusazione descritta dall'art. 37, comma 1, lettera b), cod. proc. pen. non si sottrae a questo criterio di massima: il giudice che nell'esercizio delle funzioni ha manifestato indebitamente il proprio convincimento sui fatti oggetto dell'imputazione opera - per usare le espressioni della prevalente giurisprudenza di legittimità - fuori della sede processuale e dei compiti che gli sono propri. Risultano pertanto evidenti le ragioni per cui le situazioni che danno luogo alla astensione-ricusazione debbono essere sempre oggetto di una puntuale valutazione di merito, che consenta, previa verifica in concreto dell'eventuale effetto pregiudicante, di rendere operante la tutela del principio del giusto processo: sarebbe infatti "impossibile pretendere dal legislatore uno sforzo di astrazione e di tipicizzazione idoneo a individuare a priori tutte le situazioni in cui il giudice, avendo esercitato funzioni giudiziarie in un diverso procedimento, potrebbe poi venire a trovarsi in una situazione di incompatibilità nel successivo procedimento penale" (sentenza n. 308 del 1997). Ove tale onere venisse imposto al legislatore, "l'intera materia delle incompatibilità, dispersa in una casistica senza fine, diverrebbe refrattaria a qualsiasi tentativo di amministrazione mediante atti di organizzazione preventiva" (sentenza n. 307 del 1997). Ne emerge un sistema che si propone di apprestare la necessaria tutela del principio del giusto processo in tutti i casi in cui può risultare compromessa l'imparzialità del giudice: le ragioni del pregiudizio sono infatti oggettivamente identiche sia quando il giudice ha manifestato il proprio convincimento all'interno del medesimo procedimento mediante un atto o l'esercizio di una funzione a cui il legislatore attribuisce astrattamente e preventivamente effetti pregiudicanti, sia quando la valutazione di merito è stata espressa in un diverso procedimento (ovvero nel medesimo procedimento, ma mediante un atto che non presuppone una tale valutazione) e gli effetti pregiudicanti debbano quindi essere accertati in concreto, grazie agli istituti dell'astensione e della ricusazione. L'esigenza di attuare in forma esaustiva la garanzia, inerente al principio del giusto processo, di un giudizio affidato a un giudice non condizionato da precedenti valutazioni, ha trovato riscontro nelle già menzionate sentenze nn. 306, 307 e 308 del 1997: nel dichiarare inammissibili le questioni di legittimità costituzionale allora sollevate, in riferimento all'art. 34 cod. proc. pen., in relazione a valutazioni pregiudicanti a vario titolo espresse in un diverso procedimento, la Corte ebbe a segnalare che, ove il pregiudizio per l'imparzialità del giudice non fosse riconducibile ad alcuna delle ipotesi di astensione o di ricusazione già previste dall'ordinamento, la tutela del giusto processo avrebbe potuto essere assicurata sollecitando un intervento volto ad ampliare l'ambito di applicazione di tali istituti. In definitiva la Corte Costituzionale più che apprestare particolare attenzione ad una visione formalistica delle ipotesi di astensione-ricusazione pone al centro del problema “l'esigenza di attuare in forma esaustiva la garanzia, inerente al principio del giusto processo, di un giudizio affidato a un giudice non condizionato da precedenti valutazioni” atteso che il bene preminente da tutelare è la presenza di un Giudice terzo e imparziale. D’altra parte le motivazioni addotte dal CSM sembrano smentite anche con riferimento all’elemento del c.d. interesse di cui alla lettera a) di cui all’art. 36 c.p.p. laddove il Giudicante sembra aderire ad una minoritaria tendenza della giurisprudenza civile che tende ad ancorare il concetto di interesse a quello quantomeno morale, mentre va segnalato che la giurisprudenza penale ha da tempo disancorato la nozione di interesse da situazioni che legittimerebbe la presenza nel processo del Giudice , ritenendo che la causa di astensione si identificabile ogni qual volta che il giudice abbi aun interesse ch epossa indurlo a da re al procedimento una soluzione non conforme a giustizia (Cfr. Cass. 1.2.1998, XXXX, in CP, 1989, 410) e ancor di più, maggiormente in linea con i principi costituzionali, è stata ritenuta sufficiente la sussistenza di un interesse, economico, morale o anche “indiretto” quale ipotesi che inficia la imparzialità del Giudice ovvero la presenza di aspettative o vantaggio o il timore di situazioni di pregiudizio (Cfr. Cost. 19.1.1989, n. 18, in GI, 1989, I,1, 1430). D’altro canto la dottrina è decisamente orientata a favore della linea interpretativa più ampia (Cfr. Codice di Procedura Penale Ipertestuale, G. Bonilini – M. Confortini, UTET, 2006, comm. Art. 36). Io molto sommessamente ritengo che come in ogni processo ogni valutazione giuridica abbia diritto di cittadinanza e che ogni posizione articolata nel rispetto delle regole e della Costituzione Repubblicana vada rispettata anche se, ovviamente, allo stesso modo, la medesima sia censurabile in sede di gravame; nel caso specifico, tuttavia, attesa l’attenzione dell’opinione pubblica e anche quella del mondo giuridico sarebbe auspicabile una rigorosa applicazione delle norme di legge onde legittimare fino in fondo le prime applicazioni di istituti quali “l’atto abnorme” sanzionabile disciplinarmente che non devono apparire espressione di Tribunali Speciali ma limpida applicazione di norme di legge nel rispetto delle Garanzie Costituzionali di cui il nostro Stato di diritto è dotato.
Avv. Francesco Siciliano
SUL TRASFERIMENTO CAUTELARE E PROVVISORIO EX ART. 13 DLGS 23 FEBBRAIO 2006 N. 109
SUL TRASFERIMENTO CAUTELARE E PROVVISORIO EX ART. 13 DLGS 23 FEBBRAIO 2006 N. 109
La recente riforma in tema di disciplina degli illeciti dei magistrati e relative sanzioni ha introdotto all’art. 13 la seguente formazione: “Art. 13.
Trasferimento d'ufficio e provvedimenti cautelari - 1. La sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, nell'infliggere una sanzione diversa dall'ammonimento e dalla rimozione, può disporre il trasferimento del magistrato ad altra sede o ad altro ufficio quando, per la condotta tenuta, la permanenza nella stessa sede o nello stesso ufficio appare in contrasto con il buon andamento dell'amministrazione della giustizia. Il trasferimento e' sempre disposto quando ricorre una delle violazioni previste dall'articolo 2, comma 1, lettera a), nonche' nel caso in cui e' inflitta la sanzione della sospensione dalle funzioni.- 2. Nei casi di procedimento disciplinare per addebiti punibili con una sanzione diversa dall'ammonimento, su richiesta del Ministro della giustizia o del Procuratore generale presso la Corte di cassazione, ove sussistano gravi elementi di fondatezza dell'azione disciplinare e ricorrano motivi di particolare urgenza, la Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, in via cautelare e provvisoria, può disporre il trasferimento ad altra sede o la destinazione ad altre funzioni del magistrato incolpato.
La norma ha pertanto introdotto un istituto cautelare con cui, su richiesta del Ministro di Grazia e Giustizia e del Procuratore Generale ( titolari dell’azione disciplinare), la Sezione Disciplinare del CSM può anticipare gli effetti della decisione finale disponendo il trasferimento del Magistrato incolpato ad altra sede o ad altre funzioni; affinchè ciò possa accadere è comunque necessario che sussistano gravi elementi di fondatezza dell’azione disciplinare e ricorrano motivi di particolare urgenza. Sul punto i primi commentatori hanno avuto modo di affermare che i provvedimenti cautelari previsti e disciplinati dall’art. 13 in commento siano stati ricalcati sullo schema della giustizia cautelare amministrativa. In ogni caso sul particolare problema conviene procedere per gradi secondo elementari regole dell’ermeneutica applicando cioè alla disposizione normativa la interpretazione letterale unita alla c.d. mens legis e successivamente le ulteriori regole sull’interpretazione delle norme quali l’interpretazione sistematica, quella estensiva o restrittiva e quella analogica ecc.. Sotto il primo profilo, trattandosi di decreto legislativo, bisogna spostare l’attenzione alla legge 150 del 2005 di Delega al Governo per la riforma dell'ordinamento giudiziario di cui al R.D. 30 gennaio 1941, n. 12, per il decentramento del Ministero della giustizia, per la modifica della disciplina concernente il Consiglio di presidenza, della Corte dei conti e il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, nonché per l'emanazione di un testo unico. Sulla mens legis basta andare sul link http://www.camera.it/_dati/leg14/lavori/schedela/trovaschedacamera.asp?pdl=4636-bis-D per capire quanto poco intellegibile sia stata la volontà del legislatore, soprattutto con riferimento all’iter di approvazione della legge caratterizzato, come noto, da rilievi incostituzionalità dell’allora Presidente della Repubblica di guisa che la discussione parlamentare sembra essere stata tutta incentrata sullo svuotamento della funzione legislativa e sull’approvazione della legge sulla base della posizione della fiducia. In definitiva i dubbi di costituzionalità della legge più che essere superati sulla base di discussioni parlamentari sembrano essere stati caratterizzati dalla questione di fiducia che di fatto ha posto il parlamento nella strettoia del sostegno all’esecutivo. Più indicativa sembra essere invece l’interpretazione letterale della norma, unitamente a quella sistematica della medesima, posto che sotto tale profilo appare di più agevole definizione ciò che sembra essere il bene fondante su cui viene costruita la materia dell’illecito disciplinare del Magistrato e la correlativa previsioni di sanzioni. Illuminante in tale direzione sembra essere la definizione che l’art. 1 della legge dà dei “Doveri del Magistrato”.
In tale norma si afferma che :” Il magistrato esercita le funzioni attribuitegli con imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo e equilibrio e rispetta la dignità della persona nell'esercizio delle funzioni. 2. Il magistrato, anche fuori dall'esercizio delle proprie funzioni, non deve tenere comportamenti, ancorche' legittimi, che compromettano la credibilità personale, il prestigio e il decoro del magistrato o il prestigio dell'istituzione giudiziaria”.
Principio fondante, quindi, sotto il profilo oggettivo della tutela che la legge intende apprestare, attraverso la previsioni di sanzioni, sembra essere pertanto “il prestigio dell’istituzione (rectius: funzione) giudiziaria” prima che quella del decoro del Magistrato. Invero continuando nella lettura della legge si percepisce abbastanza chiaramente che l’elencazione dei casi che danno luogo ad ipotesi di illeciti disciplinari oltre che inficiare il comportamento del singolo Magistrato costituiscono tutte ipotesi in cui, comunque, viene compromesso il prestigio e la credibilità della funzione giudiziaria. Se questo è il c.d. bene tutelato dalla norma che, seppure non assimilabile, alla norma penale quale espressione del bene giuridico protetto, comunque, in quanto espressione di applicazione di una sanzione connessa ad un comportamento che viola un precetto, sottende necessariamente la tutela di un bene giuridico. Tale bene giuridico và necessariamente individuato nel decoro e nel prestigio dell’istituzione giudiziaria. Tale conclusione sembra d’altra parte legittimata dalla interpretazione sistematica che ogni interprete deve dare del testo normativo ciò nel senso che la norma non essendo isolata, ma inserita in un sistema unitario e concluso, “va colta nelle sue connessioni con altre norme ed in particolare deve armonizzarsi con i principi fondamentali che assicurano l’intima coerenza dell’ordinamento considerato (così, ad esempio, l’interprete dovrà sforzarsi di trarre dal testo una norma che sia in armonia con i principi costituzionali) (Cfr. T. Martines, Diritto Costituzionale, Giuffrè, pag. 120 e ss.). Da tale regola ermeneutica e dalla vigenza degli articoli che vanno dal 101 al 110 della Costituzione Repubblicana si inferisce che il legislatore non abbia e non possa avere voluto in alcun modo contraddire gli articoli 101, 102, 104 e 107. Più in particolare tale affermazione vuole significare le seguenti considerazioni: a) ogni comportamento sanzionabile e previsto espressamente dagli articoli 1 e 2 del Dlgs 109 del 2006 è necessariamente espressione di violazione, in tale comportamento, da parte del Magistrato, non di una regola di interpretazione e di un cattivo uso del suo potere discrezionale nell’ambito del suo libero convincimento ( regola che evidentemente e ovviamente vale anche per il PM giusto il disposto dell’art. 107 ultima alinea), ma di una norma di legge posto che il Magistrato è soggetto soltanto alla legge e, pertanto, al di fuori dei casi in cui commetta fatti o atti rientranti in fattispecie di reato, il suo comportamento, intanto assume valore di illecito disciplinare, in quanto costituisca violazione di legge e sia sovrapponibile alle fattispecie enumerate dall’art.2 del Dlgs; in ogni caso fuori dai casi in cui il comportamento o l’atto in questione non possa essere inteso quale limpida applicazione dell’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale. In altri termini e più esemplificativamente ogni comportamento che rientri perfettamente in quelli previsti dalla legge e sia compiuto in aderenza ad una interpretazione della medesima a cui non sia ad essa attribuito altro senso “che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore” non potrà mai essere sanzionato quale illecito disciplinare; b) tale ultima conclusione trova il suo fondamento in un'altra considerazione di rango costituzionale atteso che a mente dell’art. 102 Cost “non possono essere istituiti giudici straordinari o giudici speciali. Possono soltanto istituirsi presso gli organi giudiziari ordinari sezioni specializzate per determinate materie, anche con la partecipazione di cittadini idonei estranei alla magistratura” e, pertanto, non può esistere un giudice che, al di fuori della valutazione di comportamento rientrante nelle fattispecie di cui al Dlgs che sia espressione di interpretazione di norme in violazione dell’art. 12 Disp. L.G., possa, quale Giudice Straordinario o Speciale, valutare il libero convincimento del Magistrato nell’ambito di atti previsti dalla legge nella sua corretta interpretazione. Se, invero, fosse possibile, a titolo esemplificativo, che altro il Giudice Disciplinare potesse valutare sotto il tale profilo il merito di atti di un Magistrato (PM o GIUDICANTE) comunque previsti dalla legge, ci si troverebbe in presenza della creazione di un Giudice Straordinario o Speciale, diverso dal Giudice del Gravame ( perfettamente costituzionale in quanto distinto dal primo Giudice solo per funzione), legittimato eccezionalmente a valutare il merito di un atto di un Magistrato quantunque questo sia in linea con lo sbarramento di cui all’art. 12 delle preleggi. In conclusione di tale approccio dogmatico al problema può, quindi, affermarsi che il Giudice Disciplinare in ogni caso valuta innanzitutto la violazione di legge da parte del Magistrato che con i suoi atti ( o comportamenti) necessariamente non conformi alle regole ermeneutiche di cui all’art. 12 delle preleggi, abbia comunque violato i suoi doveri di imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo e equilibrio e rispetta la dignità della persona nell'esercizio delle funzioni ( Cfr. art. Dlgs. 109 del 2006) ovvero abbia con i suoi atti ancorche' legittimi….compromesso (NDR) la credibilità personale, il prestigio e il decoro del magistrato o il prestigio dell'istituzione giudiziaria. (Cfr. art. Dlgs. 109 del 2006). In tale direzione, quindi, la norma, interpretata alla stregua delle prevsioni superprimarie di cui agli invocati articoli della Costituzione Repubblicana, pone due regole fondamentali che disegnano la legittimità sotto il profilo disciplinare di atti o comportamenti dei Magistrati: atti comunque conformi alla legge nella sua interpretazione aderente ai dettami dell’art. 12 preleggi e comportamenti che non ledano i doveri del Magistrato e il prestigio della istituzione ( rectius: funzione) giudiziaria. Più volte nel corso della trattazione si è insistito molto sul concetto di funzione e non di istituzione atteso che tale distinzione ha un valore costituzionale e serve meglio a distinguere gli uomini dalla funzione alla cui tutela ovviamente deve tendere la norma. In altri termini la Costituzione Repubblicana non pone alcuna guarentigia per il Magistrato in quanto funzionario dello Stato ( né, allo stesso modo, le guarentigie dei Parlamentari difendono il Parlamentare in quanto tale quanto piuttosto la funzione di rappresentante del popolo nell’esercizio della funzione legislativa) quanto piuttosto una guarentigia per la funzione che esso esercita posto che l’art. 104 stabilisce espressamente che “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.”. In tale direzione, pertanto, non potrà mai costituire atto che inficia il prestigio dell’istituzione giudiziaria la commissione di reati da parte del singolo Magistrato ( e ovviamente l’indagine sui medesimi con i correlativi atti di indagine) posto che questi non è il bene tutelato dalla norma quanto la sua funzione che, di contro, riceve giovamento e lustro dall’eventuale individuazione di Magistrati che nell’esercizio della funzione giudiziaria ( unico bene tutelato a livello costituzionale) commettano reati. Né, allo stesso modo, il Giudice disciplinare può, in tale veste, essere il Giudice di valutazioni di merito su indagini a carico di Magistrati perché così facendo diverebbe un Giudice Straordinario o Speciale vietato dalla Costituzione atteso che, anche per i Magistrati, valgono le ordinarie regole del codice di procedura penale qualora altro Magistrato compia a suoi danni un atto non contrario alla legge ma eventualmente censurabile dinanzi ai Giudici del gravame. Allo stesso modo, va detto che, opinare diversamente e, quindi, ritenere ammissibile un c.d. giustizia domestica quando l’indagato sia un Magistrato ( con intervento disciplinare teso a valutare il merito dell’atto di indagine) violerebbe gli articoli 3 e 25 della Costituzione creando disparità di tutela per i cittadini oltre che distogliere l’indagato dal suo Giudice naturale precostituito per legge ( arg. Ex art. 25 Cost.). Individuati i capisaldi della legge giova porre particolare attenzione alla previsione di cui all’art. 13, secondo comma, Dlgs. 109 del 2006 nella parte in cui prevede provvedimenti cautelari a carico del Magistrato incolpato. Il procedimento previsto per l’applicazione di tali misure sembra ricalcato sullo schema della sospensione dell’atto amministrativo atteso che con onere a carico del Procuratore Generale o di Magistrato del suo Ufficio devono essere allegati oltre che gravi elementi di fondatezza dell’azione disciplinare anche particolari motivi di urgenza. Tali due elementi sembrano ricalcare perfettamente i concetti di fumus boni iuris e periculum in mora. Tale ultima conclusione sembra ancora una volta dettata dai principi valevoli per l’interpretazione della legge ricavati dalla migliore dottrina e dalla costante applicazione dei principi della Corte Costituzionale in tema di interpretazione della legge ( Cfr. ex plurimis Corte Cost. 21 ottobre 2005, n. 394…… Attraverso l'interpretazione sistematica delle norme che regolano i rapporti genitori-figli si individua la regola iuris cui l'interprete deve attenersi in sede di applicazione concreta, nel rispetto del principio di responsabilità genitoriale, che impone la soddisfazione delle esigenze della prole a prescindere dalla qualificazione dello status della stessa) ciò nel senso che i concetti di gravi elementi di fondatezza e particolari motivi di urgenza non possono ricalcare lo schema delle misure cautelari penali quanto piuttosto quello di una decisione del Giudicante interinale e strumentale alla decisione di merito. Sotto tale profilo, pertanto, giova porre l’attenzione su cosa debba intendersi nello specifico del processo disciplinare per fumus boni iuris e periculum in mora. Come ogni buon giudicante bisogna partire dal concetto di periculum in mora molto più complesso da delineare rispetto a quello del fumus boni iuris o di gravi elementi di colpevolezza più agevole da individuare alla stregua della sussistenza del diritto e, se volete, dei gravi indizi di colpevolezza. (Si è preferito il primo concetto posto che, ovviamente, se invece la scelta fosse caduta sulle misure cautelari penali quale elemento di sistematicità a cui rapportare la previsione dell’art. 13 ovviamente ci troveremmo di fronte ad una valutazione di periculum incentrata sul pericolo di reiterazione del comportamento o atto che condurrebbe a concludere per l’incostituzionale previsione di un Giudice Straordinario. Spiego meglio l’inciso. Se infatti la richiesta cautelare attenesse al pericolo di reiterazione di un atto di un Magistrato valutato contrario ai doveri di cui all’art. 1 Dlgs 109/2006 – si pensi all’ipotesi di attualità della richiesta per il Procuratore di Salerno – si dovrebbe necessariamente concludere per l’incostituzionalità della norma posta l’esistenza di un Giudice Straordinario che distoglierebbe gli indagati del Procuratore di Salerno dal suo Giudice naturale e dai gravami previsti dall’Ordinamento, intervenendo nel merito degli atti cimpiuti dal Giudice naturale al posto di altro Giudice naturale che è quello del gravame avverso tali atti) . Posta, pertanto, la necessità costituzionale di individuare il periculum in mora quale elemento diverso dal merito dello specifico procedimento cautelare e, pertanto, quale periculum di cui può essere portatore il titolare dell’azione disciplinare intesa quale azione posta a tutela della funzione giudiziaria, non resta che ancorare tale pericolo al bene giuridico che la norma ( Dlgs 109 del 2006) sembra tutelare che è necessariamente quello del prestigio dell’istituzione (rectius: funzione) giudiziaria. In altri termini l’elemento di particolare urgenza che il Procuratore Generale della Corte di Cassazione o il Ministro di Grazia e Giustizia potranno allegare all’atto di incolpazione deve necessariamente attenere ad atti o comportamenti che mettono in pericolo il prestigio della funzione giudiziaria e richiedono, proprio perché sussistente l’urgenza, una delibazione sommaria – quali quelle previste in ogni provvedimento d’urgenza del nostro ordinamento – piuttosto che una delibazione piena presa a seguito del procedimento ordinario. A questo punto del discorso sembra potersi concludere che affinchè si abbia trasferimento cautelare ai sensi dell’art. 13 secondo comma Dlgs 109 del 2006 e che questa previsione, nonché la sua applicazione pratica, sia compatibile con l’art. 107 della Costituzione, è necessario non solo che ci si trovi in presenza di un atto o comportamento del Magistrato che rientri perfettamente nelle ipotesi di cui agli articoli 1 e 2 del Decreto ma oltretutto, quando si tratti di atto compiuto, che quest’ultimo sia contrario alla legge che lo prevede nella sua interpretazione ai sensi dell’art. 12 delle preleggi e che, allo stesso tempo, ponga un problema che investa il prestigio, la credibilità e l’imparzialità della funzione giudiziaria nel suo complesso. Cosa dire auguri alla sezione Disciplinare del CSM poiché nelle ipotesi di atti compiuti dal Magistrato non costituenti reato sarà davvero molto difficile individuare e motivare la sussistenza del periculum in mora.
Avv. Francesco Siciliano
LA FUNZIONE DEL TRASFERIMENTO DEI MAGISTRATI AI SENSI DELL'ART. 2 L.G.
LA FUNZIONE DEL TRASFERIMENTO DEI MAGISTRATI AI SENSI DELL’ART. 2 L.G.
La recente riforma della disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità di cui al Decreto Legislativo 23 febbraio 2006, n. 109 ha lasciato immutato le guarentigie previste dall'art. 2 del R.D. 511 del 1946 a mente del quale i magistrati di grado non inferiore a giudice, sostituto procuratore della Repubblica o pretore, non possono essere trasferiti ad altra sede o destinati ad altre funzioni, se non col loro consenso. Essi tuttavia possono, anche senza il loro consenso, essere trasferiti ad altra sede o destinati ad altre funzioni, previo parere del Consiglio superiore della magistratura, quando si trovino in uno dei casi di incompatibilità previsti dagli artt. 16, 18 e 19 dell'Ordinamento giudiziario approvato con R. decreto 30 gennaio 1941, numero 12, o quando, per qualsiasi causa indipendente da loro colpa non possono, nella sede occupata, svolgere le proprie funzioni con piena indipendenza e imparzialità. Questa situazione normativa in un tentativo di visione sistematica della normazione sembra legittimare la posizione per cui una è l'ipotesi di intervento del CSM qualora nel funzionamento dell'ufficio si verifichino atti o fatti che compromettono l'indipendenza e l'imparzialità dello svolgimento della funzione giudiziaria in un determinato distretto altra è l'ipotesi in cui il Magistrato, qualunque sia la sua posizione all'interno dell'ufficio, compia atti da cui derivino violazioni di norme disciplinari. In ogni caso è pacificamente affermato il carattere non sanzionatorio della procedura ex art 2 L.G., ma di rimozione di situazioni non accettabili sotto il profilo della funzionalità dell’amministrazione della giustizia (e del prestigio con cui tale funzione deve poter essere esercitata). Sembra quindi pacificamente affermabile che l'ipotesi da ultima valutata sia diversa e distinta dalla violazione di norme disciplinari e/o sostanziali da parte dei Magistrati ma attenga genericamente al corretto funzionamento dell'amministrazione della Giustizia in uno specifico distretto. Si può a tale proposito menzionare e fare riferimento alle precedenti applicazioni della norma nella quale ogni volta dall'istruttoria è emersa ad esempio che nella Procura di XXXX vi era una situazione ambientale assai difficile e che essa era stata determinata proprio dai comportamenti del Procuratore, da un lato eccessivamente e inutilmente rigidi o di sottovalutazione del carico di lavoro gravante sull’unico sostituto all’epoca in servizio e dall’altro disattento alle esigenze della polizia giudiziaria e conflittuali con il Foro. In altri termini l'intervento del CSM con la procedura di cui all'art 2 L.G. riguarda ipotesi di problemi di funzionamento di un ufficio giudiziario con riferimento a comportamenti o fatti dei titolari dell'Ufficio con riferimento all'ambiente. Posta questa specifica applicazione dell'istituto, derivante dalla sua delineazione nella previsione normativa, si può passare a verificare se nel caso concreto del presunto contrasto tra le Procure di Salerno e la Procura Generale di Catanzaro possa trovare applicazione proprio tale procedura. In estrema sintesi il caso di cui si parla è disciplinato e previsto dall'ordinamento il quale prevede espressamente che (Art. 11.-Competenza per i procedimenti riguardanti i magistrati.) 1. I procedimenti in cui un magistrato assume la qualità di persona sottoposta ad indagini, di imputato ovvero di persona offesa o danneggiata dal reato, che secondo le norme di questo capo sarebbero attribuiti alla competenza di un ufficio giudiziario compreso nel distretto di corte d'appello in cui il magistrato esercita le proprie funzioni o le esercitava al momento del fatto, sono di competenza del giudice, ugualmente competente per materia, che ha sede nel capoluogo del distretto di corte di appello determinato dalla legge. Pertanto Il giudice naturale delle denunce a carico dei Magistrati che esercitano le loro funzioni nel distretto di Corte d'Appello di Catanzaro è il PM di Salerno. Questo giudice svolge (rectius: deve svolgere) le indagini a carico dei Magistrati di quel distretto e nell'ambito di tali indagini compie gli atti previsti dagli articoli 358 e ss. c.p.p.. Tali atti, come per ogni altra indagine svolta dal P.M. , salva la diversa competenza per territorio determinata ex art. 11 c.p.p., sono soggetti agli ordinari mezzi di impugnazione previsti dal codice di rito. Passando dalla elementare esemplificazione delle norme al fatto concreto si può affermare che l'Ufficio della Procura della repubblica di Salerno ha svolto attività d'indagine e compiuto atti di indagine a carico di Magistrati del distretto di Catanzaro atti che, nel rispetto del codice di rito, sono soggetti agli ordinari mezzo di riesame. Si tratta, pertanto, di una normale ( si fà per dire) attività di indagine attraverso atti previsti dal codice di rito. Rispetto a tali atti ( di questo si discute) possono prospettarsi le seguenti ipotesi: a) "Illeciti disciplinari nell'esercizio delle funzioni" (art. 2 D.Lgs. 109 del 2006); b) "Illeciti disciplinari fuori dell'esercizio delle funzioni" sub i) l'uso strumentale della qualità che, per la posizione del magistrato o per le modalità di realizzazione, e' idoneo a turbare l'esercizio di funzioni costituzionalmente previste (art. 3 D.Lgs. 109 del 2006); ipotesi queste rispetto alle quali la titolarità dell'azione disciplinare spetta ai sensi dell'art. 14 al Ministro di Grazia e Giustizia e al procuratore Generale presso la Corte di Cassazione. Rispetto a ciò che è previsto dall'ordinamento e a ciò che è dato apprendere dalle informazioni sul fatto concreto non sembra proprio applicabile l'ipotesi di cui all'art. 2 del R.D. 511 del 1946. I precedenti rispetto a tale istituto sembrano tutti condurre verso situazioni di incompatibilità dei Magistrati per vincoli di parentela o altro con l'ambiente in cui esercitano le funzioni. Invero della questione seppure sotto altro aspetto si è occupata la Corte Costituzionale la quale in (Corte Costituzionale, sent. 4 novembre 2002, n. 457; Pres. Ruperto, Red. Mezzanotte.) ha avuto modo di affermare che "Il cuore della argomentazione di quella sentenza stava tutto nello stretto legame esistente tra il diritto di difesa e la configurazione del procedimento disciplinare secondo paradigmi di carattere giurisdizionale, preordinati al soddisfacimento della duplice esigenza, da un lato, che il corretto svolgimento delle funzioni giudiziarie sia tutelato nella forma più confacente alla posizione costituzionale della magistratura e al suo statuto di indipendenza e, dall’altro, che al magistrato, incolpato di aver commesso un illecito, sia riconosciuto quell’insieme di garanzie che solo la giurisdizione può assicurare. Entrambe le esigenze sottese alla giurisdizionalizzazione della responsabilità disciplinare conducono a riconoscere al magistrato sottoposto al relativo procedimento la facoltà di avvalersi di un difensore di professione anziché consentirgli soltanto la nomina di un difensore "interno", appartenente all’ordine giudiziario.Non può, al contrario, dirsi che abbia carattere giurisdizionale il procedimento di trasferimento di ufficio, nel quale non è un illecito compiuto dal magistrato che viene immediatamente in rilievo, ma una situazione obiettiva che si determina nell’ufficio ove egli esercita le sue funzioni. Regolato dal legislatore solo per sommi capi e con disciplina che precede l’entrata in vigore della Costituzione del 1948, l’attuale assetto di tale procedimento è il risultato anche di atti organizzativi del Consiglio superiore della magistratura, che ha adottato uno schema tipico del procedimento amministrativo. L’assenza di una deliberazione in camera di consiglio e il suo svolgersi, nella fase culminante, in sedute dell’assemblea, nelle quali ciascun componente del Consiglio può intervenire e manifestare, di regola pubblicamente, la propria opinione, e che sono destinate a concludersi con una votazione pubblica, sulla proposta di una commissione referente, imprimono al procedimento connotati non assimilabili all’attività giurisdizionale, come dimostrato anche dal fatto che il provvedimento finale è esternato con decreto del Presidente della Repubblica [rectius: Ministro della Giustizia]. Se queste sono le caratteristiche del procedimento, è da ritenere per esso sufficiente la regola del contraddittorio, nella sua accezione di previa audizione del soggetto interessato, che nel nostro Stato democratico si eleva a principio di tendenziale osservanza in tutti i casi in cui il provvedimento sia suscettibile di incidere su situazioni soggettive. E’ in conformità a tale principio che l’art. 4 del r.d.lgs. n. 511 del 1946 prescrive che dell’avvio del procedimento per trasferimento d’ufficio sia data comunicazione all’interessato e che questi abbia diritto di prendere visione e di estrarre copia degli atti, nonché di essere sentito personalmente. Sulla base di tale scarna previsione legislativa il Consiglio superiore della magistratura, a maggior salvaguardia del magistrato, ha previsto, con atti di organizzazione interna, che egli possa essere assistito da un collega. L’ulteriore eventualità che il magistrato interessato possa scegliere un difensore professionale, avvocato del libero Foro, sebbene non sia impedita dalla formulazione dell’art. 4, non è costituzionalmente imposta e non risponde all’attuale configurazione del procedimento per trasferimento d’ufficio. La previsione di una difesa personale o a mezzo di altro magistrato appare infatti idonea ad assicurare il nucleo minimo di difesa richiesto dall’art. 107, primo comma, della Costituzione nei procedimenti amministrativi che possono approdare al trasferimento d’ufficio. La pienezza della tutela giurisdizionale è assicurata nella fase di giudizio vera e propria che può seguire al procedimento amministrativo in virtù dell’esercizio del diritto di impugnazione spettante al magistrato. E’ infatti questo lo specifico strumento indicato dalla Corte, fin dalla sentenza n. 44 del 1968, come idoneo a realizzare, per gli appartenenti alla magistratura, quella ampiezza di tutela giurisdizionale, coessenziale allo Stato di diritto, nei confronti delle possibili violazioni di legge da parte del Consiglio superiore della magistratura. Si aggiunga che davanti al giudice amministrativo può venire in considerazione non solo la violazione di legge ma anche l’eccesso di potere, il quale, denunciato in alcuna delle sue figure sintomatiche, consente al giudice un penetrante sindacato sul provvedimento di trasferimento di ufficio per incompatibilità ambientale".
In definitiva, anche la Corte Costituzionale, posta la particolare natura dell'istituto volto essenzialmente a garantire il funzionamento dell'amministrazione della Giustizia in un distretto qualora questo sia vulnerato da situazioni che incrinano il rapporto di imparzialità di chi lo esercita ha ritenuto l'istituto non sanzionatorio.
A questo punto si possono trarre le file del discorso: QUALI RAPPORTI DI PARENTELA O AMICIZIA O ALTRO NELL'AMBITO DEL DISTRETTO DI SALERNO CON RIFERIMENTO ALL'INDAGINE DI CUI LA PROCURA E' COMPETENTE EX ART. 11 C.P.P. RENDONO APPLICABILE L'ISTITUTO DEL TRASFERIMENTO EX ART. 2 L.G. PER COME SEMPRE AFFRONTATO DAL CSM E ANCHE DALLA CORTE COSTITUZIONALE?
avv. Francesco Siciliano
mercoledì 14 gennaio 2009
Inaugurazione Anno Giudiziario 2009
INTERVENTO DEL PRESIDENTE DEL CNF
Roma, 30 gennaio 2009
Signor Presidente della Repubblica, signor Presidente del Consiglio, signor Presidente della Corte costituzionale, signor Ministro Guardasigilli, signor Primo Presidente, Signor Procuratore Generale, Eminenza Autorità civili e militari porgo a loro e a tutti gli intervenuti il deferente saluto del Consiglio nazionale forense e mio personale.
Nel corso del congresso nazionale forense, che si è celebrato a Bologna nel novembre scorso, si è dedicato ampio spazio ai problemi della giustizia, resi particolarmente acuti dalla perpetuazione della crisi che investe ormai da decenni la macchina processuale del nostro Paese.
La situazione si è aggravata vieppiù a causa della recessione economica che ha assunto dimensioni globali e una veemenza inaspettata. La recessione produrrà inevitabilmente effetti negativi anche sul contenzioso: è prevedibile la moltiplicazione delle azioni rivolte alla tutela del credito, l’instaurazione di procedure connesse alla insolvenza delle imprese, e più generalmente una soluzione conflittuale, anziché amichevole, delle controversie.
L’ Avvocatura, consapevole del suo ruolo e della responsabilità che ciascun cittadino deve assumersi in questi frangenti, senza perdere la speranza, ma anzi cercando di volgere le difficoltà del momento in un ammonimento ed in uno sprone per ridare credibilità al sistema e vigore allo sviluppo economico – come ci ha esortato il Capo dello Stato nel suo discorso di fine d’anno - intende profondere il suo impegno nel modo più rigoroso per agevolare la situazione e contenere i tempi delle fasi cruciali.
Al congresso si sono esaminate le possibile vie d’uscita alla situazione che già allora si stava delineando e che nei mesi successivi si è definita con contorni più netti La stato delle cose, illustrato con la consueta precisione dal Presidente della Suprema Corte continua ad essere preoccupante. I dati or ora declinati confermano la tendenza negativa già registrata negli anni passati, come emerge anche dal Rapporto del CEPEJ che ne ha fatto oggetto di esame comparativo con la situazione in cui versa la giustizia negli altri Paesi del Consiglio d’Europa.
Pubblicato nell’ ottobre scorso, i dati si riferiscono al 2006; il rapporto elabora statisticamente i tempi e i modi nei quali funziona la macchina della giustizia affidata agli apparati pubblici.
E’ amaro constatare che la giustizia civile – a differenza di quella penale e di quella amministrativa - connota il nostro Paese in modo non encomiabile; in alcune tabelle, ad es. in quella riguardante il numero dei procedimenti pendenti e tempi del loro esaurimento – il nostro Paese è in coda rispetto ai Paesi dell’ Unione europea, ma purtroppo rispetto anche agli altri del continente, seguito solo dalla Bosnia Erzegovina.
Questi dati riflettono tuttavia solo uno spicchio della situazione complessiva.
Come tutte le analisi statistiche ed economiche che tengono conto dei dati più facilmente verificabili , dà spazio ai costi senza tener conto dei benefici.
Quanto ai costi, la spesa in questo settore non risulta essere inferiore a quella stanziata in Paesi economicamente forti, come la Francia, la Germania o il Regno Unito; è evidente però che là dove il numero dei procedimenti e i tempi del loro esaurimento sono ridotti l’investimento produce effetti più considerevoli.
Ma credo che sia necessario correggere quell’analisi almeno sotto due profili: l’ampio ricorso alla giustizia ordinaria, che costituisce un primato per noi; e questo è il segno che, pur in condizioni difficili, ai giudici togati continuano ad affidarsi milioni di cittadini, come dimostra il numero dei procedimenti pendenti; il costo della giustizia per i suoi utenti, che nel nostro Paese è ancora tollerabile e quindi non costituisce un ostacolo al suo accesso.
Sarà allora una questione di ottimale distribuzione delle risorse, di completamento dell’organico, di migliore gestione della organizzazione amministrativa. A questo programma di miglioramento stiamo lavorando, in collegamento con gli Ordini distrettuali e territoriali e con i componenti dei consigli giudiziari, che ci aiutano a monitorare il sistema e a segnalarne le manchevolezze, oltre che i possibili rimedi.
Solo in questo modo il diritto alla difesa, consacrato dall’art. 24 della Costituzione, che costituisce ancora uno dei grandi meriti che si possono ascrivere alla legge fondamentale, potrà essere compiutamente applicato, come si è avuto modo di sottolineare in occasione dei numerosi incontri di studio promossi, anche per merito della Corte costituzionale, in quest’anno fecondo che ha celebrato i sessanta anni della Costituzione repubblicana.
Quanto ai rimedi, l’anno appena trascorso ha recato alcune importanti innovazioni.
L’ Avvocatura ha dato immediato riscontro e offerto la sua disponibilità alla creazione di organismi di conciliazione e mediazione presso i Tribunali, che potranno essere gestiti dagli Ordini forensi, con la partecipazione degli avvocati in veste di conciliatori e mediatori. Questo ruolo è espletato regolarmente nell’ambito della c.d. giustizia privata; ma è svolto dagli avvocati in via di supplenza nella veste di giudici onorari, il cui numero è quasi il doppio di quello dei giudici togati.
Allo stesso modo l’Avvocatura ha accolto con favore, ed è quindi disponibile a realizzare compiutamente, il progetto in allestimento di estensione del processo telematico a tutte le procedure e in tutte le sedi.
Anche le riforme - annunciate al congresso dal Ministro della Giustizia - sono state accolte con favore; alcune di esse per la verità erano già state oggetto di ripetute proposte e richieste dell’Avvocatura: dalla semplificazione dei riti processuali alla riorganizzazione normativa del sistema, dalla specializzazione dei giudici alla migliore definizione dei confini della giurisdizione, e così via; temi sui quali molto si è discusso, anche in quest’aula, grazie alle iniziative seminariali promosse dal Primo Presidente.
Abbiamo anche esaminato qualche testo proposto in sede governativa e abbiamo partecipato alle audizioni delle commissioni parlamentari competenti. Attendiamo ora di esaminare la versione definitiva dei provvedimenti, che è stato annunciata come imminente, e confidiamo che ci sia data la possibilità di contribuire, sulla base dell’esperienza maturata diuturnamente nelle aule di giustizia, a che il testo posto in approvazione tenga conto delle esigenze che abbiamo segnalato. D’altra parte, questo è uno dei compiti istituzionali del Consiglio, al quale non intendiamo sottrarci.
Abbiamo accolto con favore la decisione di introdurre nel nostro ordinamento una azione risarcitoria collettiva che assicuri ai consumatori quello strumento processuale che la Commissione europea ha raccomandato nel piano strategico di tutela dei consumatori per gli anni 2007-2013, con il Libro verde sui rimedi collettivi [COM(2008) 794 del 27 novembre 2008] e con il Rapporto sulla effettività e sull’efficacia dei rimedi collettivi, pubblicato il 23 dicembre scorso.
Attendiamo, anche in questo settore, di esaminare il testo, grati se ci sarà data la possibilità di offrire la nostra collaborazione, questa volta non sulla base dell’esperienza, che dovrà essere costruita sul campo, ma sulla base dei principi di chiarezza, coerenza, efficacia a cui dovrebbero rispondere tutti i provvedimenti normativi ed in particolare questo , la cui redazione, come abbiamo potuto constatare esaminando il testo approvato dal Parlamento e poi saggiamente sospeso, implica particolari difficoltà di natura tecnica, oltre che scelte di natura politica.
Siamo ovviamente disponibili a collaborare alla applicazione del Regolamento comunitario n. 1896 del 2006, entrato in vigore il 12 dicembre scorso, sul procedimento ingiuntivo, e alla applicazione del Regolamento comunitario n. 861 del 2007 , entrato in vigore il 1 gennaio scorso , sulle controversie di modesta entità, che semplifica i procedimenti relativi a controversie transfrontaliere in materia civile e commerciale; le small claims potrebbero essere anche amministrate dagli stessi organismi di conciliazione e mediazione, ai quali il legislatore potrebbe affidare i compiti giudiziali previsti dal Regolamento, e ciò per non gravare ulteriormente il carico, già gravoso, della giustizia ordinaria.
Le small claims richiamano alla mente la tutela dei diritti “deboli”: non solo dei diritti dei soggetti deboli, i malati, gli anziani, i minori, gli immigrati, i poveri, ai quali l’ Avvocatura sovviene, nei limiti consentiti dall’attuale legislazione e in adempimento della sua responsabilità sociale, ma anche dei diritti che pur essendo “forti” dal punto di vista della loro garanzia costituzionale, sono tuttavia deboli perché non trovano nella macchina della giustizia e spesso anche nell’ apparato istituzionale una adeguata tutela; mi riferisco in particolare ai diritti civili e al giusto processo.
Il 6 dicembre scorso, data memorabile per la proclamazione universale dei diritti dell’uomo, è stata sottoscritta a Parigi la “Carta degli avvocati nel mondo”, promossa dall’ American Bar Association, dal Barreau des Avocats di Parigi e dal Consiglio nazionale forense, per consentire agli avvocati, che per loro costituzionale professione sono paladini dei diritti di libertà, di operare ovunque siano conculcati i diritti fondamentali. E’ l’ulteriore impegno che abbiamo assunto, anche a testimoniare che, al di là dell’immagine spesso riduttiva quando non denigratoria dei mass media, per la verità non condivisa dall’opinione pubblica, come è risultato da recenti indagini sociologiche, gli avvocati non perdono mai di vista il loro compito essenziale, essere cioè custodi dei diritti.
Ma per esser tali gli avvocati abbisognano di moderne regole, di regole che consentano un accesso selezionato, una formazione continua accurata, un procedimento disciplinare semplificato e spedito, una amministrazione degli albi più ordinata. Abbisognano cioè di una riforma radicale della professione, che ne esalti la funzione e ne ammoderni l’organizzazione. Alcuni progetti di legge dedicati alla riforma della disciplina della professione forense pendono ora in Parlamento; mi auguro che tutte le componenti dell’ Avvocatura, come convenuto nel corso del congresso bolognese, siano in grado di predisporre al più presto un testo aggiornato in materia da sottoporre al legislatore.
Se si vuole accedere alla prospettiva del mercato, senza giungere agli eccessi della “commercializzazione” della professione, ben venga una disciplina che renda più competitiva l’Avvocatura italiana rispetto a quelle degli altri Paesi europei, e anche più competitiva rispetto alle altre professioni.
Il Consiglio nazionale forense, insieme con tutte le componenti associative dell’Avvocatura, da anni si prodiga per migliorare la qualità della formazione e della prestazione professionale degli avvocati e ritiene perciò errata la prospettiva di quegli organismi internazionali, come la Banca mondiale degli investimenti (con i suoi Rapporti del 2004, 2007, 2008) o l’OCSE (con il suo Rapporto sulla competizione nelle professionali legali dell’ 8 gennaio 2008), che , sotto il velo della efficienza del mercato, accreditano una ideologia della concorrenza che tende a privilegiare gli ordinamenti di common law rispetto quelli di civil law, a considerare l’Italia un paese poco affidabile per gli investitori a causa del suo sistema giudiziario, a ritenere il ruolo degli avvocati del tutto marginale.
La cultura giuridica di cui siamo portatori insieme con coloro che autorevolmente amministrano la giustizia, la tradizione di libertà espressa per l’appunto dal “libero foro”, l’impegno profuso nella difesa dei diritti della persona, dei rapporti familiari, dei rapporti economici, nei processi penali equi nella misura in cui la difesa non è minorata rispetto all’accusa, nei processi amministrativi e tributari dimostrano come l’Avvocatura possa cooperare attivamente nella amministrazione della giustizia e come possa, anche in questo difficile momento, contribuire a recuperare la prosperità del Paese.
E’ questo rinnovato impegno che assumo, dinanzi a Lei Presidente, e alle Autorità qui convenute, a nome dell’Avvocatura.
Ringrazio tutti Loro per la cortese attenzione.