mercoledì 12 novembre 2008

La genitorialità sociale e i diritti del concepito: tra divieto di fecondazione eterologa e patologia giuridica. di Francesco Siciliano Sommario: 1. La carta di Nizza in generale. Sue influenze sul diritto interno. - 2. La normazione positiva nazionale e ultra nazionale. In particolare la figura della genitorialità sociale e la difesa del diritto del concepito. ** * ** 1. La carta di Nizza in generale. Sue influenze sul diritto interno La Carta europea dei diritti fondamentali, approvata dal Parlamento europeo il 14 Novembre 2000 e proclamata ufficialmente dal Consiglio europeo di Nizza il 7 dicembre 2000, racchiude in 54 articoli quello che dovrebbe diventare il nucleo centrale della futura Costituzione europea, rispecchiando i valori che costituiscono l'identità degli Stati aderenti, anche in vista dell’allargamento dell’unione.Sebbene privo di valore giuridico vincolante, il documento - che rappresenta il minimo comune denominatore delle diverse tradizioni costituzionali - segna dunque una svolta essenziale nella politica dell'Unione europea, in origine orientata ad affrontare prevalentemente questioni economiche. Essa accoglie, in linea di principio, i diritti contemplati dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948 e quelli enunciati nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali del 1950, con l'aggiunta di alcuni "nuovi diritti" come richiesto dal Parlamento europeo. La Carta recepisce inoltre i c.d. diritti indiretti, cioè quelli derivanti dai Trattati, dalle Convenzioni, dalle Carte comunitarie e i diritti riconosciuti dalla giurisprudenza della Corta di Giustizia delle Comunità europee e della Carta europea dei diritti dell'uomo, così che le istituzioni comunitarie e gli Stati membri possano interpretare la normativa comunitaria alla luce delle disposizioni in essi contenute. I diritti sono raggruppati in sei capitoli concernenti la dignità, la libertà, l'uguaglianza, la solidarietà, la cittadinanza e la giustizia. Un'ultima parte contiene le disposizioni relative alla sfera di applicazione della Carta ed una clausola c.d. di salvaguardia (art. 53), diretta a riconoscere la prevalenza della normativa internazionale o nazionale se più favorevole rispetto a quella prevista dal documento di Nizza. Quanto alla definizione di "nuovi diritti" la Carta recepisce principi elaborati in seno alle Nazioni Unite e al Consiglio d'Europa. Nell'ambito della biologia e della medicina ad esempio, è previsto il diritto al consenso informato nonché il divieto di commercializzazione del corpo umano e delle sue parti, il divieto di clonazione e di pratiche biogenetiche (art. 3).E' inoltre contemplato il diritto alla tutela dei dati personali (art. 8) frutto del progresso elettronico e della globalizzazione, quello alla libertà d'impresa (art. 16) finora mai contemplato in atti internazionali. Non esistono particolari innovazioni nell'ambito del diritto di asilo (art. 18), ma viene definitivamente previsto all'art. 19 il divieto di respingimento dello straniero nel Paese in cui è oggetto di persecuzione. Alcuni articoli della Carta rivestono un singolare interesse per la delicatezza dei principi enunciati: il principio di non discriminazione da applicarsi anche nel caso di diversità di orientamenti sessuali (art. 21), il principio di libertà religiosa e quello d'istruzione (artt. 10 e 14), da impartire secondo le convinzioni religiose dei genitori. In base al principio di proporzionalità (art. 52), la Carta consente limitazioni all'esercizio dei diritti e delle libertà nei casi previsti dalla legge, purché il loro contenuto sia rispettato e solo nei casi nei quali tali limitazioni risultino necessarie perché rispondenti a finalità importanti di interesse generale riconosciute dall'Unione o all'esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui. Per ciò che concerne l’argomento della seguente trattazione essa stabilisce la difesa della vita di ogni essere umano, la necessità del consenso informato sulle tecniche mediche cui i soggetti dell’ordinamento fanno riferimento nonché la tutela della vita privata e familiare di ogni cittadino oltre al suo diritto di costituirsi una famiglia. Nel settore che più propriamente interessa la nostra trattazione le norme fondamentali sono rappresentate dal consenso informato che ogni stato deve prevedere con riferimento alle tecniche mediche e la salvaguardia della vita umana oltre alla salvaguardia della vita privata e familiare. Esula dalla nostra trattazione ogni considerazione circa il concetto e il modello di famiglia cui la carta fondamentale fa riferimento mentre è certo che la normazione ultranazionale trova perfetta corrispondenza nel dato interno quanto alla difesa della vita umana e alla necessità del consenso informato con riferimento al ricorso alle tecniche mediche in tema di procreazione. Invero le norme previste dalla legge in commento sulla tutela del concepito in ipotesi di violazione del divieto di fecondazione medicalmente assistita di tipo eterologo rientrano perfettamente nel paradigma della difesa della vita umana atteso che la legge in perfetta aderenza alla Carta tutela la vita umana prevedendo le ipotesi di impunità dei genitori e la salvaguardia dello status del figlio. Allo stesso modo la norma si preoccupa di stabilire la obbligatorietà del consenso informato. In altri termini le disposizioni della legge in commento si ritrovano perfettamente coerenti almeno sotto il profilo delle disposizioni richiamate alle previsioni della Carta. Le disposizione afferenti alla tutela dei minori, invero, fanno emergere il concetto fondamentale posto a base della scelta del legislatore interno nel tema che si va discorrendo. E’ infatti paradigmatico nel settore di cui ci si occupa la preminenza della tutela del minore rispetto alla aspirazione, pur legittima, dell’uomo di divenire genitore atteso che quando la Carta di Nizza fa riferimento ai rapporti del minore esplicita espressamente la necessità della sua evoluzione all’interno della coppia con ciò legittimando la scelta del legislatore nazionale che vieta ( rectius: non prevede) il diritto alla fecondazione medicalmente assistita per la donna single. Allo stesso modo la preminenza della tutela del minore esclude che la violazione del divieto di fecondazione eterologa potesse portare alla negazione dello status di figlio del concepito giusta la considerazione che il bene preminente nell’ambito del bilanciamento tra i beni giuridici tutelati è e rimane l’interesse del minore alla sua esistenza e alla sua evoluzione. Vedremo poi nel corso della trattazione la perfetta coincidenza di beni giuridici tutelati tra la norma interna e la Carta fondamentale. 2 La normazione positiva nazionale . In particolare la figura della genitorialità sociale e la difesa del diritto del concepito. La legge 19 febbraio 2004 n. 40 si occupa di dettare norme in materia di procreazione medicalmente assistita. La legge in commento entra nel campo della regolamentazione della procreazione medicalmente assistita prevedendo all’art. 1 la possibilità di ricorrere ai metodi di procreazione assistita qualora la coppia che intende utilizzare tale tecnica abbia problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana. Dalla normazione positiva prevista all’art. 1 si possono prima facie inferire alcune evidenti considerazioni di inquadramento dogmatico delle fattispecie disciplinate dalla legge. In primo luogo va detto che il nostro ordinamento certamente prevede per l’individuo un diritto alla procreazione, strettamente connesso alla propria libertà sessuale. La fonte normativa di tale diritto va rinvenuta nei principi costituzionali e descritto in termini di diritto soggettivo pieno, non essendo esso condizionabile o sopprimibile da regolamentazioni normative1. Esso trova altresì riconoscimento normativo in fonti di rango primario quali quella relativa alla legge sull’interruzione della gravidanza. Distinto è invece l’inquadramento dogmatico da assegnare al diritto di ricorrere alla fecondazione medicalmente assistita atteso che esso trova fonte in diverse norme costituzionali e di legislazione primaria e diverso è il suo atteggiarsi concreto essendo questo comprimibile e regolamentabile da fonti di legge. Invero la legge individua nell’ambito delle situazioni di infertilità il diritto della coppia di ricorrere alla fecondazione artificiale così delineando un diritto condizionato2 al ricorso alla fecondazione medicalmente assistita. Soggetti legittimati all’esercizio di tale diritto sono l’uomo e la donna uniti da un legame di coppia, sostanzialmente stabile, essendo a tal fine parificata la convivenza all’unione matrimoniale. In ordine alla identificazione della fonte normativa da cui ricavare l’esistenza del diritto condizionato al ricorso alla fecondazione artificiale taluni commentatori lo hanno ancorato al diritto alla salute costituzionalmente tutelato3 anche se tale inquadramento dogmatico non sembra essere pienamente aderente al dato normativo posto che la previsione di legge che limita la possibilità di ricorso alla fecondazione medicalmente assistita alle sole coppie evidentemente esclude che la donna single possa far ricorso alla fecondazione artificiale per la mera tutela del suo diritto alla salute4. In realtà le norme cui maggiormente sembra ancorato il c.d. diritto di procreare sono gli artt. 2, 29, 30 e 31 Cost in quanto il diritto di costituire una famiglia e la conseguente filiazione non possono essere disgiunte dall’evento riproduttivo. Nell’ambito del generale diritto a procreare e ad essere genitori che trova anche conferma normativa nelle varie norme che consentono di superare l’eventuale impossibilità della coppia di procreare naturalmente si vede come nella sua realizzazione concreta all’interno della coppia e dell’ordinamento tale diritto trovi un bilanciamento con altri valori pure costituzionalmente tutelati. E’ il caso della legge sull’adozione tradizionale che sembra assolvere precipuamente alla funzione di dare una discendenza a chi non può avere figli mentre la legge sull’adozione speciale riformata dalla L. 4 maggio 1983, n. 431 assolve alla diversa funzione – anche sotto il profilo del bene giuridico tutelato e della mens legis – di dare al minore una famiglia idonea all’interno della quale trovare le condizioni di sviluppo della sua personalità secondo le sue aspirazioni e inclinazioni. Riprova di ciò la si ha avuto riguardo alla posizione giuridica del minore adottato a al procedimento di adozione in generale. In quest’ultimo caso,invero, il diritto di procreare rectius di divenire genitori viene bilanciato dal diritto del minore di trovare la famiglia idonea al suo sviluppo. Pertanto il dato normativo su cui si fonda il generale diritto a procreare consente di individuare nelle medesime norme la fonte su cui poggia il diritto al ricorso alla procreazione medicalmente assistita che lascia libero il soggetto interessato circa l’an, il quando e il quantum della scelta procreativa ma legittima l’inquadramento della figura soggettiva in termini di diritto condizionato posto che l’ordinamento regola il quodomo dell’esercizio di tale diritto5. Si deve, pertanto escludere, ogni richiamo al diritto alla tutela della salute del soggetto, seppur vagamente enucleabile dal dato normativo, atteso che tale richiamo incontra il limite dei soggetti legittimati al ricorso a tale tecnica riproduttiva che ovviamente non consente di ritenere enucleabile un diritto alla salute della coppia ma di contro una tutela dello sviluppo della personalità umana nell’ambito della formazione sociale ove si svolge la personalità dell’uomo ( arg. Ex art. 2 Cost.). Le conclusioni cui si è giunti avuto riguardo al dato normative interno sembrano perfettamente coerenti con il dato normativo ricavabile dalla Carta di Nizza laddove le disposizioni che riverberano i loro effetti sulla questione in argomento consentono di enucleare le medesime conclusioni. Invero, l’art. 24 della Carta stabilisce e ribadisce la scelta fondamentale della preminenza dell’interesse del bambino quale bene giuridico da tutelare anche a dispetto di altri concernenti le aspirazioni dell’uomo con riguardo al suo diritto di procreare e divenire genitore. Infatti la norma pone all’interprete e al legislatore nazionale due punti fermi nell’affrontare il problema sia con riferimento all’inquadramento dogmatico sia alla possibilità di legiferare nell’ambito interno. Il punto fondamentale è quello dell’interesse del minore a vedere riconosciuto il suo diritto di esistere e di esprimersi e l’altro, pure fondamentale, sempre ricavabile dall’art. 24 della Carata è quello concernente la necessaria presenza dei due genitori ( ovviamente intesi di sesso diverso altrimenti la norma cesserebbe di avere un significato reale) sia nella vita del bambino con riguardo alla sua crescita sia, evidentemente, al momento della sua procreazione anche per il ricorso a pratiche medicalmente assistite. D’altra parte la legittimità della scelta nazionale che si commenta – cicca la necessaria presenza della coppia- trova il suo dato normativo nelle previsioni di cui all’art. 9 della Carta che espressamente preserva alla legislazione nazionale le scelte circa la formazione della famiglia e della sua tutela. Spostando l’angolo di visuale dal diritto di procreare a quello del divenire genitori è evidente che il ricorso alla fecondazione medicalmente assistita pone problemi di ordine giuridico solo con riguardo alla fecondazione c.d. eterologa atteso che la fecondazione di tipo omologo non fa scaturire alcuna problematica in ordine alla derivazione biologica e giuridica del nuovo nato quanto alla paternità. La fecondazione omologa, si è detto, non pone alcun problema in ordine alla genitorialità che essa fa scaturire atteso che essa è ritenuta meritevole di tutela giuridica e sociale. Invero la fecondazione omologa soddisfando il desiderio di una coppia sterile di avere figli del proprio sangue non pone alcun problema di ordine giuridico posto che sussiste una perfetta coincidenza fra verità biologica e verità giuridica. Invero la ratio che sottende alle norme relative alla filiazione è certamente basata sul caposaldo del favore veritatis in contrapposizione al favor legittimatis dimodochè l’ordinamento consente di rimuovere i meccanismi derivanti dalle presunzioni legali di paternità ogni qual volta la presunzione di paternità non coincida con la verità del concepimento ( arg. ex art. 235 c.c.). Da ciò discende in maniera piuttosto evidente che il ricorso alla fecondazione medicalmente assistita da cui scaturisca una fecondazione artificiale di tipo omologo non pone all’ordinamento e all’interprete alcun tipo di problema essendo tale tecnica perfettamente coerente con tutti i principi stabiliti dall’ordinamento. Essa, infatti, consente il ricorso alle predette tecniche quale modo per risolvere i problemi di sterilità di coppia e, allo stesso modo, è perfettamente in linea con i principi dell’ordinamento in ordine alle presunzioni di paternità. Ovviamente la patologia in quest’ultimo caso concerne esclusivamente la fecondazione artificiale di tipo omologa post mortem la cui liceità è da escludere nel nostro ordinamento. Anche se in talune circostanze soccorrono le presunzioni di paternità codificate. La questione ha trovato precedenti giurisprudenziali di merito in Trib. Palermo, Ordinanza 29 dicembre 19986. La liceità della fecondazione artificiale di tipo omologo attesa la sua perfetta coerenza con le norme stabilite dall’ordinamento fanno ormai affermare che si sia definitivamente superata l’endiadi sessualità-riproduzione dove la prima è il naturale e logico presupposto della seconda posto che le tecniche di riproduzione hanno reso possibile la separazione dei gameti, che mantengono la loro capacità riproduttiva, dal corpo umano che li ha generati nonché la possibilità per gli stessi di essere conservati e di circolare in modo autonomo. Ovviamente la circolazione dei gameti e la loro fusione in ambiente extrauterino ha ulteriormente posto il problema della simmetricità dei diritti da attribuire ai generanti; anche se, nel presente lavoro, non si intende affrontare il problema dei diritti dell’embrione e dei suoi generanti basti indicare che si ritiene di aderire a quella parte di giurisprudenza che ha avuto modo di affermare che “ fino a quando non vi sia stato il trasferimento dell’embrione nell’utero della donna con determinazione dell’inizio della gravidanza, i diritti fondamentali dei genitori biologici sull’embrione, che è frutto dell’unione dei rispettivi gameti, ed i diritti fondamentali alla libera autodeterminazione alla procreazione, devono essere valutati, garantiti e tutelati sullo stesso piano paritetico. E’ solo dopo il trasferimento dell’embrione nel corpo della donna e con l’insorgenza della gravidanza che il diritto alla maternità o meno della donna prevale decisamente sul diritto alla paternità dell’uomo. E tale valutazione trova preciso e puntuale riscontro nella legge 22 maggio 1978 n. 194 sull’interruzione volontaria della gravidanza nella quale, il diritto alla interruzione della gravidanza, nelle varie fasi e ricorrendo i presupposti è riconosciuto esclusivamente alla madre che ha libertà di autodeterminazione entro i limiti riconosciuti dalla legge”7. Anche in quest’ultimo angolo di visuale le conclusioni cui si è giunti sul piano interno appaiono perfettamente coerenti con il dettatto della Carta cui si fa riferimento come momento ultranazionale di valutazione delle norma. Invero l’art9 della Carta a proposito del diritto di costituire una famiglia che può essere legittimamente inteso come genus della species diritto di divenire genitori lascia alle legislazioni nazionali il compito di disciplinarne le modalità di realizzazione. Data tale norma è evidente che la scelta sul piano dei valori costituzionali della famiglia come società naturale ove si svolge la personalità dei figli consentiva e consente sul piano della legislazione primaria di stabilire che solo le coppie unite da relazioni stabili ( e cioè solo le coppie che danno vita alla società naturale) ove si svolge la personalità dei figli potessero accedere alla predetta tecnica medica al fine di divenire genitori. Sul punto, in conclusione, non appare che la norma ultra nazionale abbia in qualche modo inciso nell’ambito della scelta che il legislatore nazionale poteva operare circa il diritto di ricorrerre alla predetta tecnica medica. Tornando al piano nazionale sul punto si può affermare che la tutela attribuita alla procreazione si estende anche all’ulteriore modalità del suo concepimento che è la fecondazione medicalmente assistita. Invero si ritiene di collocare il diritto di procreare nell’ambito del libero svolgimento della personalità di ciascuno8 e si è detto che “il diritto di procreare, inteso originariamente come procreazione naturale, cioè mediante l’accoppiamento di sesso diverso, negli ultimi decenni con progresso medico-scientifico, alla possibilità biologica di avere discendenti si è aggiunta l’ulteriore possibilità della procreazione artificiale che può avvalersi di diverse tecniche riproduttive”9. Tuttavia lo si è già affermato e quest’ultima posizione trova conforto letterale nella norma positiva che si commenta, il diritto di procreare mediante ricorso alla fecondazione medicalmente assistita non può esser configurato come un modo di procreare che si aggiunge a quelli naturali e che come tale deve ricevere tutela dall’ordinamento, ma uno strumento medico che lo stato prevede come forma di risoluzione di problemi di sterilità di coppia rispetto al quale la coppia ha il diritto di ricevere dallo stato la relativa assistenza e la relativa erogazione. Diversa è la situazione quando ci si trovi di fronte al ricorso alla fecondazione medicalmente assistita di tipo eterologa. Essa è vietata dall’ordinamento anche se la patologia prevista dalla norma fa emergere una soluzione di favore per la tutela del concepito nonché la figura di genitorialità c.d. sociale che si prova ad inquadrare nel presente lavoro. La genesi della soluzione normativa va certamente ricercata in un precedente del Giudice delle Leggi che in relazione ad una questione relativa alla legittimità costituzionale delle norme che prevedevano l’azione di disconoscimento della paternità ne ha dichiarato l’inammissibilità soffermandosi tuttavia su alcune considerazioni de jure condendo che hanno poi trovato puntuale trasfusione nella legge che si commenta. Per configurare esattamente la tematica in questione e la soluzione normativa trovata dalla legge in commento giova partire dalla vicenda portata alla cognizione del Trib. Cremona, 17 febbraio 1994, concernente la tematica dell’ammissibilità dell’azione di disconoscimento di paternità proposta dal marito che abbia preventivamente prestato il proprio consenso all’inseminazione artificiale eterologa della propria moglie10. Va detto da subito che la sentenza in commento ha trovato poi conferma in grado di appello 11 mentre è stata completamente cassata in sede di legittimità12. La soluzione da ultimo applicata dalla Corte di legittimità ha completamente escluso l’applicazione al caso concreto della norma sul disconoscimento della paternità partendo dal presupposto che essa norma si applica esclusivamente al rapporto adulterino della moglie che esula certamente dall’ipotesi in commento della fecondazione medicalmente assistita di tipo eterologo. Sulla specifica questione dell’ammissibilità dell’azione di disconoscimento sono rinvenibili in dottrina tre distinte posizioni che variano tra chi aderisce all’ammissibilità dell’azione di disconoscimento – aderendo alla soluzione adottata dal giudice di merito nella controversia sopra richiamata-13; chi pur ammettendo l’esperibilità dell’azione attribuisce rilevanza alla volontà del marito14 e chi, all’opposto, critica decisamente l’ammissibilità dell’azione di disconoscimento15. In questa direzione si collocano le considerazioni di chi ritiene che alla luce delle valutazioni che si possono compiere sull’acquisizione di status di figlio legittimo derivante dall’adozione che dà vita ad un rapporto di filiazione anche in assenza del vincolo biologico di procreazione – figura questa tutta incentrata sull’interesse del minore – non sembrava meritevole di tutela nel nostro ordinamento l’interesse del padre a pentirsi della propria decisione di accogliere un figlio nato grazie all’inseminazione artificiale della compagna.16 Da tale sostrato normativo è nata la scelta del legislatore di stabilire letteralmente l’inammissibilità dell’azione di disconoscimento della paternità qualora, da comportamenti concludenti, sia ricavabile il consenso del padre all’inseminazione artificiale della donna. Si tratta ora di stabilire quali sono le implicazioni di carattere normativo sotto il profilo della scelta legislativa anche in ordine agli interessi tutelati dal legislatore in relazione agli istituti coinvolti nonché l’emersione e la caratterizzazione della c.d. genitorialità sociale. Sulla necessità di escludere per via normativa espressa la possibilità per il presunto padre di esercitare l’azione di disconoscimento così da dissolvere gli effetti della sua scelta consapevole di acconsentire ad una fecondazione medicalmente assistita di tipo eterologo, la prima norma che soccorre è certamente l’art. 2 della Costituzione che rappresenta il paradigma fondamentale e l’espressione di un principio positivo vincolante nei rapporti interprivati all’interno dell’ordinamento: esso, invero, codifica un principio ancora anteriore a quello afferente al figlio e cioè lo staus personae quale “ valore primario ……(e) traduzione soggettiva di un valore obiettivamente tutelato, come tale non disponibile, codificabile o contestabile”17. L’uomo, invero, è in se stesso giuridicamente rilevante, quale sintesi di diritti e doveri fondamentali18. Species di tale genus è la categoria dell’interesse del minore – fondativa della positività dei diritti, appunto, del minore – che svolge una funzione valutativa nella selezione dei bisogni e delle esigenze minorili meritevoli di tutela giuridica. Tralasciando nella presente trattazione le tematiche attinenti al contratto a favore di terzo più precipuamente di stampo civilistico19 ovvero al suo inquadramento nell’ambito della ratio dell’art. 144 c.c quale componente dell’indirizzo della vita familiare20 ciò che importa ai nostri fini è proprio la scelta legislativa di ritenere giuridicamente rilevante la volontà del presunto padre ai fini ostativi della successiva azione di disconoscimento della paternità e la sua valenza con riferimento al fattore responsabilità e all’affidamento della partoriente nonché all’indisponibilità dello status di figlio legittimo ormai determinato. In realtà il problema che sembra porsi è certamente quello di stabilire se il foro interno del presunto padre ha legittimità a compiere una scelta sul piano dell’ordinamento posto che il ripensamento ad assumere la paternità o meglio il vittorioso disconoscimento di paternità legittimerebbe la nascita di un bambino senza padre sia biologico che sociale con la creazione dei c.d. figli della provetta. Certamente la scelta sul piano dell’ordinamento è quella di censurare l’atteggiamento “ondivago”21 del padre consenziente il quale diversamente opinando potrebbe determinare il fenomeno prima evidenziato. Tale scelta normativa sul piano dei rapporti all’interno della coppia va vista come riconoscimento dell’affidamento incolposo ingeneratosi nella partoriente in ordine alla serietà della determinazione in precedenza manifestata dal compagno22. Tale angolo di visuale prescinde in ogni caso dalla status del figlio nato attraverso la predetta tecnica di fecondazione atteso che quest’ultimo, infatti, sarà qualificato come figlio legittimo23 in ragione della preminenza del favor legittimatis che preclude la nascita di un ulteriore status filitionis24. Si intuisce quindi che per il fatto concreto che concerne ogni figlio nato all’interno di qualsiasi rapporto di coppia l’ordinamento, soprattutto alla luce del fatto che non si possono ritenere determinati le presunzioni di paternità previste dal codice civile atteso che esse valgono solo per i figli nati all’interno del matrimonio, ritiene preponderante e prevalente il criterio e il principio della responsabilità. Si era detto, invero, che non sembrava meritevole di tutela l’interesse del padre a pentirsi della scelta di avere un figlio tramite il ricorso alla fecondazione medicalmente assistita di tipo eterologo e ciò perché prevaleva l’interesse del minore a vedersi riconosciuto l’ormai acquisito status di figlio legittimo25 ma l’inquadramento di carattere dogmatico ha trovato una maggiore specificazione nel concetto di responsabilità atteso che le spiegazioni di tipo sistematico che fanno ricorso alle presunzioni di paternità previste nel codice concernono i soli figli nati all’interno del matrimonio26. Il concetto di responsabilità trova le sue basi in alcune considerazioni concernenti la indisponibilità dello status filiationis atteso che qualora si ammettesse il disconoscimento della paternità del fanciullo nato da inseminazione artificiale eterologa dovrebbe consentirsi che questi assuma lo status di figlio naturale – ovviamente riconoscibile – riguardo alla madre e in ordine alla figura paterna prenderebbe il mero status di “figlio della provetta” essendo altresì stabilito l’anonimato del donatore di gamete. Allo stesso modo deve affermarsi – così da riempire di significato giuridico la categoria della responsabilità – che esiste una sorta di parallelo tra la decisione di ricorrere all’inseminazione eterologa e il riconoscimento del figlio naturale nel senso che attraverso la veste della finzione giuridica27 le due fattispecie producono il medesimo effetto. In entrambe le ipotesi, invero, è determinante l’aspetto volontaristico28 che è previsto dalla norma in maniera tale da non ammettere alcun ravvedimento29 nel senso che la volontà manifestata dal padre è la consapevole e responsabile volontà di assumere l’ufficio della potestà genitoriale cui è connessa l’assunzione del nato dello status filiationis30. E’ evidente che nelle due ipotesi come già detto infrà la differenza consiste nella diversa derivazione biologica del nuovo nato così come è evidente che l’ordinamento ha previsto una specularità di effetti sotto il profilo della titolarità della potestà genitoria. Medesimo ragionamento và enucleato con riguardo alle ipotesi della fecondazione eterologa e quella dell’adozione sempre ovviamente con riguardo agli effetti scaturenti della manifestazione di volontà della persona che assume la titolarità dell’ufficio della potestà genitoria. Nel senso che la fictio iuris da cui deriva l’assunzione della potestà genitoria si fonda sul medesimo presupposto volontaristico consistente nella irrevocabilità della scelta consapevole e responsabile di assumere quel ruolo. Evidente quindi, sotto il profilo della tutela della personalità del singolo quella che è la funzione delle figure richiamate in ordine alla legittima aspettativa della coppia di procreare ovvero di assumere l’ufficio di potestà genitoria e, abbastanza evidente, è anche la soluzione normativa per le ipotesi di patologia giuridica in cui si sia contra ius fatto ricorso alla fecondazione medicalmente assistita di tipo eterologo. Altrettanto evidente appare altresì l’emersione della figura della genitorialità sociale quale categoria discendente dalla scelta consapevole e responsabile di assumere la potestà genitoria nell’ambito della tecnica riproduttiva di cui si discorre sia perché essa si fonda sul più volte richiamato principio di responsabilità sia su quello preminente dell’indisponibilità dello status filiationis. Alla luce delle considerazioni svolte, invero, non è sembrato e non sembra meritevole di tutela l’interesse del padre a pentirsi della propria decisione di accogliere un figlio nato grazie all’inseminazione eterologa della propria compagna; essendo rilevante che il suo sia stato un consenso informato e soprattutto essendo rilevante sotto il profilo sociale il suo comportamento nei confronti della madre e del figlio ciò nel senso che il suo impegno è stato determinante nel far nascere il figlio ed è naturale che da questo derivi la responsabilità del padre di comportarne le conseguenze e i doveri previsti dalla norma. Invero il principio di responsabilità porta a fondare la legittimità del figlio non sulla derivazione biologica ma su quella scelta consapevole del padre sui cui si fonda l’acquisizione dello status di figlio atteso che riguardato dal lato di quest’ultimo il fatto che egli non possa accertare la paternità naturale del donatore di gamete conforta e rafforza il suo diritto indisponibile di vedere riconosciuto dell’ordinamento e di avere come padre quello che – anche se solo con un atto di volontà – ne ha effettivamente determinato la nascita. E’ questa la fictio iuris su cui si fonda la paternità sociale così come sono quelle esposte le ragioni su cui si struttura la figura della richiamata genitorialità sociale. La circostanza da ultimo evidenziata consente, in questa sede, di considerare che il parallelismo instaurato tra le ipotesi richiamate al fine di fornire una giustificazione giuridica di tipo sistematico e sufficientemente aderente al sistema della soluzione normativa che si è stabilita per la patologia giuridica afferente alla fecondazione eterologa si fonda evidentemente solo sulla preminenza del principio della tutela del minore e su quello della scelta consapevole e responsabile del futuro genitore. Da ciò discende che il nostro ordinamento non poteva consentire la liceità della inseminazione eterologa posto che la soluzione normativa attiene alla mera patologia giuridica e tende alla tutela dello status filitionis mentre una apertura di liceità della fecondazione medicalmente assistita di tipo eterologo dovrebbe fondarsi sul diritto della coppia al ricorso a questa tecnica riproduttiva. Ma già all’inizio della presente trattazione si è detto che non esiste e non può esistere un diritto soggettivo al ricorso alla fecondazione medicalmente assistita essendo tale diritto inquadrabili nell’ambito dei diritti condizionabili e regolabili nella loro estensione dell’ordinamento il quale deve valutare le sue possibili espansioni in relazione ai principi fondamentali e alle norme di carattere primario che caratterizzano in particolare nel caso concreto gli istituti della potestà genitoria e quello della filiazione. Non esiste, invero, una norma da cui ricavare l’esistenza di un diritto di procreare sempre e comunque da parte della coppia dovendo tale diritto in relazione al ricorso alle tecniche riproduttive individuate dal progresso medico-scientifico essere coniugato con i principi valevoli nell’ambito degli istituti richiamati. Questi ultimi se consentono di affermare con sufficiente chiarezza che l’elemento volontaristico può determinare una paternità come forma di tutela che l’ordinamento prevede per il nuovo nato non altrettanto individua l’esistenza di una norma da cui ricavare un diritto insopprimibile a procreare che dovrebbe perciò stesso essere sempre realizzabile attraverso la mera dichiarazione di volontà. Opinando diversamente anche la procreazione con tutte le sue implicazioni etiche e morali finirebbe per rientrare a pieno titolo nella categoria dei negozi giuridici ( quanto ad una sua particolare forma di realizzazione) non appartenendo più alla sua categoria naturale. Le considerazioni ora svolte si inseriscono perfettamente nelle previsioni della Carta di Nizza cui tale lavoro in sede di premessa ha voluto fare riferimento. Invero, con riferimento alle previsioni di cui all’art. 9 della Carta di Nizza, nella quale si fa riferimento al diritto di ciascuno di formarsi una famiglia cui è evidentemente connessa l’aspirazione di procreare, nella richiamata Carta si fa espresso riferimento ai limiti delle regolamentazioni nazionali e, nel nostro angolo di visuale, si è cercata ed esposta una giustificazione dogmatica della scelta di vietare il ricorso alla fecondazione medicalmente assistita di tipo eterologo. Allo stesso modo la tutela del concepito e dei suoi diritti quale soggetto che ha acquisito un vero e proprio status filiationis sembrano perfettamente coerenti con le previsioni di cui all’art. 24 della Carta che prevede espressamente la tutela del minore, non solo nell’articolo richiamato, quale bene giuridico preminente appunto da salvaguardare. Le considerazioni ora svolte sembrano trovare una loro legittimità giuridica anche nelle norme ultranazionali atteso che i beni giuridici tutelati dalla Carta sono perfettamente identici a quelli evidenziati con riferimento alla normativa interna. Invero i principi della tutela del minore quale bene giuridico tutelato e quello relativo alla responsabilità della scelta, che presiedono alle scelte legislative in ordine allo status del concepito attraverso il ricorso alla fecondazione eterologa seppure vietata, si rinvengono quasi specularmene nella Carta di Nizza. Più volte nella presente trattazione si è fatto riferimento alla scelta di tutela del bambino quale bene giuridico preminente su altri aspetti dei diritti della personalità del singolo qualora questi interferiscano con il primo così come è stato più volte evidenziato il diritto del minore – espressamente garantito- di avere un rapporto con i due genitori qualora da questo non discendano conseguenze gravi per il medesimo. Ma decisivo nella considerazione delle scelte legislative nell’ambito interno sembra essere la prima alinea dell’art. 24 della Carta di Nizza che si apre con l’affermazione generale che i bambini hanno diritto alla protezione necessaria alla loro cura e al loro benessere e nel comma successivo afferma la preminenza, appunto, dell’interesse del bambino su qualsiasi altro diritto della personalità pure protetto. Nella direzione indicata dall’affermazione di principio contenuta nella norma è evidente la piena coerenza delle scelte del legislatore nazionale in ordine alla patologia giuridica derivante dal ricorso illecito alla fecondazione eterologa. In tale caso, invero, non solo il sistema delle norme sulla filiazione previste dal codice civile legittimano la scelta di far prevalere in ogni caso il diritto del minore di avere come genitori legittimi coloro i quali con i loro atti consapevoli hanno determinato la sua nascita, ma, altresì, l’affermazione paradigmatica della norma ultranzazionale tutta tesa nella direzione di protezione del benessere del minore, legittima, allo stesso modo del corpus normativo interno, la prevalenza del benessere del minore su qualsiasi altra scelta legislativa. Tale norma, tuttavia, legittima altresì sul piano della coerenza normativa anche le considerazioni che si sono svolte da ultimo circa la legittimità del divieto di fecondazione eterologa laddove, ovviamente, è prevalsa la considerazione circa gli interessi del concepito sull’aspirazione, pure, legittima dell’uomo di concepire sempre e comunque. Le considerazione giuridiche, invero, non possono e non debbono non considerare che la tecnica in questione è pur sempre una tecnica medica che pur dovendo favorire la realizzazione della personalità dell’uomo attraverso la possibilità di divenire genitori interferisce con i diritti – da garantire – di un nuovo soggetto il bambino (rectius: concepito) il quale per espressa previsione della Carta deve vedere garantito il suo benessere e la sua cura così come deve vedere garantito – salva l’ipotesi di dannosità del rapporto- il suo rapporto – appunto – con i genitori. Sembrano con ciò definitivamente fugati i dubbi e le incertezze relative alla legittimità delle scelte normative sia con riferimento alle disposizioni interne sia alle disposizioni della Carta di Nizza. Invero anche la norma ultra nazionale, ribadendo la preminenza dell’interesse del minore, legittima le scelte in ordine alla ricorribilità alla tecnica medica di cui si discorre atteso che la compromissione – del tutto eventuale – della legittima aspirazione dell’uomo di divenire genitore sempre e comunque – quindi anche attraverso il ricorso alla fecondazione eterologa, quella post mortem ovvero quella della donna single – si spiegano in funzione dei principi cardini dell’ordinamento ultra nazionale che codifica il diritto del minore al rapporto con i due genitori laddove l’indicazione due genitori piuttosto che genericamente genitori fa evidentemente riferimento alle tradizionali figure genitoriali di uomo e donna atteso che il riferimento a diversi tipi di famiglia apparire pleonastico. La norma, invece, si presta ad una lettura necessariamente incentrata sulla famiglia di tipo tradizionale formata dalla figura della madre e del padre. Atteso il dato di partenza e la preminenza dell’interesse del minore alla sua cura e al suo benessere ben si spiegano le limitazioni previste nella normazione interna circa la possibilità della sola coppia etero sessuale di fare ricorso alla fecondazione medicalmente assistita posto che una previsione concernente la fecondazione post morte, ovvero quella relativa alla fecondazione eterologa e, infine, quella relativa alla donna single, si porrebbero in contrasto proprio con i diritti del bambino garantiti e codificati nell’art. 24 della Carta. Note 1 Sulla categoria del diritto soggettivo vedasi la ampia letteratura presente nei trattati e nella manulatistica di diritto civile. 2 Sulla categoria dei diritti condizionati si vedano: A.M. Sandulli, Manuale di diritto Amministrativo, Padova, 1984; Cassarino, Le situazioni giuridiche e l’oggetto della giurisdizione amministrativa, Milano, 1956; Cassetta, Diritto soggettivo ed interesse legittimo: problemi della loro tutela giurisdizionale, in Riv. Trim. Dir. Pubblico, 1952; Acquarone, Contributo alla classificazione delle autorizzazione amministrative, Milano, 1962. 3 Cfr. Disposizioni in materia di procreazione medicalmente assistita, in Ferrando, Libertà, responsabilità e procreazione, Padova, 1999, 473 e ss.. 4 Cfr. Disposizioni ecc. , ult. Cit.; Corte Cost. 16 maggio 1994, n. 183, in Foro it., 1995,I, 3408, Gustatane, La procreazione con metodi artificiali, in Dir. Soc., 1996, 2, 186 ss.. 5 Cfr. Baldini – Cassano, Persona, biotecnologie e procreazione, IPSOA, 2002, pag. 10 e ss. 6 Cr. Trib. Ult. Cit., in Famiglia e diritto, 1999, 52, con nota di Dogliotti, Inseminazione artificiale “post mortem” e intervento del giudice di merito 7 Cfr. Trib. Bologna, 9 maggio 2000, in Baldini – Cassano, Persone ecc., IPSOA, 2002, cit.. 8 Cfr. infra nel medesimo paragrafo 9 Cfr. Trib. Bologna, ult. Cit. 10 Cfr., in Giur.it., I, 2, c. 995 e ss., con nota di G. Ferrando, Il “caso Cremona”: autonomia e responsabilità della procreazione. La medesima sentenza è in Nuova giur.civ. comm., 1994, 4, pp. 541-552, con commento di G. Ferrando, Procreazione artificiale, consenso del marito e disconoscimento della paternità, nonché in Corr. Giur. 1994, 5, pp. 631-633 con osservazioni di G. Sciancalepore, Assunzione volontaria della paternità e “diritto di ripensamento” 11 Cfr. App. Brescia, 10 maggio 1995, in Fam. E dir., 1996, 1, p. 34 e ss., e in Giur.it., I, 2, p. 48. 12 Cfr. Cass., 16 marzo 1999, n. 2315, in Corr. Giur., 1999, 4, p. 429 e ss., nonché in Giudia al diritto, 1999, 12, p. 48, con osservazioni critiche di A. Finocchiaro, La Cassazione non può svolgere una supplenza nelle funzioni riservate al legislatore. Sul medesimo argomento P. Schlensinger, Inseminazione eterologa: la cassazione esclude il disconoscimento di paternità, in Corr. Giur., 1999, 4, pp.401-403. La vicenda ha poi trovato una ulteriore eco nel caso del Tribunale di Napoli, 2 aprile 1997, in Dir. Fam. e pers., 1997, 4, p. 1279, con cui si è ritenuta non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 235 c.c. – per violazione degli artt. 2,3,29,30 e 31 Cost. – nella parte in cui non sarebbe preclusa l’azione di disconoscimento di paternità al marito che abbia preventivamente prestato il proprio consenso all’inseminazione artificiale eterologa della propria moglie. Sulla cui questione Cost., 22 settembre 1998, n. 347, in Corr. Giur., 1998, 11, p. 1294 e ss., annotata da V. Carbone, Disconoscimento di paternità e inseminazione eterologa: la Corte costituzionale non risolve il problema; Cfr., Cost., ult. Cit., in Fam e dir, 1998, 5, pp. 405 e ss. Con osservazioni di G. Sciancalepore, l’interesse del minore tra esercizi di formalismo giuridico e legalità costituzionale. 13 Cfr. V. Sgroi, Disconoscimento di paternità, in Enc. Dir., XIII, Milano, 1954, G. Ponzanelli, La” forza” e la “purezza” degli “status”: disconoscimento di paternità e inseminazione eterologa, in Fa, e dir., 1994, p. 186 14 Cfr. F. Santosuosso, La fecondazione artificiale umana, Milano, 1984; T. Auletta, Fecondazione artificiale. Problemi e prospettive, in Quadr., 1986, pag.1. A. Guarnirei, Consenso preventivo del marito all’inseminazione artificiale eterologa della moglie e successivo esperimento dell’azione di disconoscimento della paternità, in Resp. Civ., 1988, pag. 9; L. Lenti, La procreazione artificiale. Menoma della persona e attribuzione della paternità, Padova, 1993, pag. 301. 15 Cfr. A. Trabucchi, Fecondazione artificiale e legittimità dei figli, in Foro it., 1956, I, c. 1212; C.M. Bianca, Diritto Civile. Famiglia e successioni, II, Milano, 1985, pag. 284; M. Dogliotti, Ancora sulla inseminazione eterologa e sull’azione di disconoscimento, in Dir. Fam. e pers., 1997, pag. 783. 16 Cfr. Gilda Ferrando, Il caso Cremona: autonomia e responsabilità nella procreazione, in Giur.it, 1994, I, 2, 995 e ss. Cit. 17 Cfr. Procreazione assistita commento alla legge 19 febbraio 2004, n. 40 a cura di Pasquale Stanzione e Giovanni Sciancalepore, Milano, 2004 18 Cfr. P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale, Napoli, 1991, pag. 277. 19 Su cui si è detto che la strada della volontà negoziale porterebbe al sindacato del relativo regolamento di interessi secondo lo dell’art. 1372 c.c. Nel senso che i paciscenti potrebbero non solo deliberare l’opportunità del ricorso all’inseminazione artificiale eterologa, ma condizionarne l’efficcacia dello stesso a determinati eventi :cfr. Procreazione assistita, ult. cit. Da una lettura ovviamente generalissima si intuisce la vacuità di simili impostazioni del problema. 20 Cfr. P. Schlesinger, Inseminazione eterologa, cit., pag. 403 nonché su specifici aspetti U. Ruffolo, Commenti civilistici, in AA.VV., Un bambino non voluto è un danno risarcibile? a cura di A. D’Angelo, Milano, 1999, pp. 91 e 92 21 L’espressione è usata dalla Corte di legittimità nella nota sentenza 16 marzo 1999, n. 2315, cit.. 22 D’altra parte la lesione della legittima aspettativa della donna in caso di ripensamento del compagno è stato oggetto di valutazione in dottrina sotto il profilo del danno inquadrato nella categoria dell’illecito aquiliano. A. Guarnirei, Consenso preventivo del marito all’inseminazione artificiale eterologa della moglie e successivo esperimento dell’azione di disconoscimento di paternità: un’ipotesi di responsabilità civile? , in Resp. Civ. prev., 1988, pag. 9 e ss.. 23 Cfr. Cossu, Filiazione legittima, in Riv. Dir. Civ. , 1995, II, pag. 177 e ss. Per la ricostruzione della paternità, in ipotesi di inseminazione artificiale eterologa, si rinvia a F.M. Cirillo, la fecondazione artificiale eterologa ed il rapporto di paternità, nella filiazione legittima ed in quella naturale, in Riv. Dir. Civ., 1996, II, pag. 661 e ss. 24 Cfr., Procreazione assistita, ult. cit. 25 Sul punto si era argomentato in dottrina che lo sfavore era maggiormente evidenziato dai casi concreti in cui la questione si era posta atteso che la ragione fondante di tale situazione era stata la crisi del rapporto coniugale di guisa che era necessario impedire che situazioni di conflitto all’interno della coppia potessero riverberare i loro effetti sullo status di figlio legittimo. 26 Cfr. , Procreazione assistita, ult.. cit., Nella stessa direzione del testo P. Schlesinger, Inseminazione eterologa, cit., pag. 403. 27 Categoria questa che ricorre anche nell’ipotesi dell’adozione che produce gli effetti della filiazione attraverso una fictio iuris. 28 In argomento si veda V. Pietrobon, Riconoscimento del figlio naturale e incapacità di intendere e volere, in Riv. Dir. Civ., 1996, pag. 466 e ss., nonchè C.Salvi, L’errore nell’accertamento della filiazione naturale, in Riv. Tri. Dir.proc.civ., 1952, pag. 22 e ss. 29 Arg. ex art. 256, comma 1, c.c. laddove è statuito che il riconoscimento è irrevocabile ed è chiaro che la soluzione normativa prescelta nel caso della fecondazione eterologa appare essere quella più convincente sotto il profilo della c.d. responsabilità della scelta in relazione all’indisponibiltà dell’acquisizione dello status filiationis. E’ tuttavia evidente la disomogeneità delle situazione prese in considerazione atto il profilo del legame biologico del padre che esprime la volontà essendoci, nel caso del riconoscimento del figlio naturale, la derivazione biologica del nuovo nato. 30 Che ovviamente sarà di figlio legittimo o naturale a seconda della circostanza che sia nato all’interno o meno del matrimonio.
L'Italia dell'Antimafia di Francesco Siciliano mercoledì 21 novembre 2007 Il tema dell'antimafia da un certo punto in poi è diventato in Italia una sorta di contrappeso al fenomeno mafioso perché la politica, la famosa suprema politca, non poteva lasciarsi sfuggire un terreno dove si riusciva a stare sotto i riflettori. Sono nati così esponenti politici specializzati nel fenomeno oltre che iniziative istituzionali specializzate nel fenomeno.Piano piano si sono persi di vista i veri professinisti dell'antimafia a favore degli esperti dell'antimafia che hanno dispensto in dibattiti e pubblicazioni le loro cure miracolose. L'italia ha piano finito per posporre agli esperti del fenomeno i nomi di Peppino Impastato, Giangiacomo Ciaccio Montalto, Pio La Torre, Piersanti Mattarella, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Padre Pino Puglisi, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Rosario Livatino, Antoninoo Scopelliti, Antonio Montinari, Nini Cassarà, Emanuela Setti Carraro, Beppe Alfano, Lenin Mancuso, Emanuela Loi, Vito Schifani, Giuseppe Fava, Boris Giuliano, ecc. e, soprattutto, ha finito per posporre agli esperti della mafia i familiari, "gli orfani" di tutti questi nomi e i tanti tantissimi, magistrati, uomini silenziosi delle forse dell'ordine e delle istituzioni che quotidianamente combattono sul campo l'emergenza mafie. La suprema politica ha dato via via "lustro" alla battaglia alla mafia con mirabolanti dichiarazioni da prima pagina in ogni occasione utile dimenticandosi di quelle dichiarazioni ogni qual volta si è trattato di far seguire alla dichiarazioni di principio provvedimenti concreti ed utili nella lotta alla mafia. Ultimo esempio di tanto impegno nella lotta alla mafia è il provvedimento votato al Senato che giuridicamente equivale a negare che in Italia esista e sia esistito un fenomeno criminale contrario ai poteri dello stato che ha mietuto e miete vittime per l'affermazione del proprio predominio. Lo Stato quindi ritiene che le vittime di mafia non siano vittime di un contropotere organizzato ma morti singoli caduti per mani di singoli criminali in relazione a specifiche contese: bene! Ma l'italia dell'Antimafia non deve stupire; non deve stupire perché lo stato per molti anni ha dato prova di altalenanza nelle prese di posizione sul fenomeno: dichiarazioni mirabolanti e ferme nella lotta al fenomeno scelte non coerenti nella gestione della repressione del fenomeno; chi non ricorda la difficile e lunga gestazione della Legge La Torre; chi non ricorda "Il giudice ragazzino" ucciso da solo in un campo dopo essere uscito dalla sua Ford Fiesta mentre aveva firmato il sequestro dei beni di grandi cosche; chi ha scordato la situazione di carenza di uomini e di mezzi degli uffici giudiziari calabresi. Chi non ha posto attenzione alla circostanza che la politica dell'attuale dicastero della giustizia tiene in maggiore considerazione la politica della normalizzazione dell'attività giudiziaria rispetto al potenziamento delle strutture investigative. Ma, soprattutto, chi fa finta di non vedere che quando il livello delle investigazioni sembra procedere versa una direzione che potrebbe segnare una chiara linea di demarcazione tra chi combatte e chi aiuta molti fenomeni criminali, parte un processo lungo di delegittimazioni che scombina la visione delle cose al fine di lasciare immutata la zona d'ombra di molti fenomeni? Io voglio esprimere la mia personale solidarietà ai parenti delle vittime di mafia ma, soprattutto, voglio chiedere loro un grande impegno nel nome dei loro cari: raccontate il dolore, mostrate all'italia il prezzo altissimo della vostra privazione, rendete partecipi i cittadini del Vostro isolamento, raccontate soprattutto la "dissociazione" nel sapere di lottare nel nome della giustizia e della verità ma di sentire l'ostilità e il fastidio di molti che all'apparenza dovrebbero essere i vostri alleati in questa lotta. Francesco Siciliano
L'Italia dell'Antimafia - Seconda parte: La gerarchizzazione della giustizia di Francesco Siciliano martedì 27 novembre 2007 Sembra che Giovanni Falcone, dopo lo smantellamento e/o normalizzazione dell'attività del "pool antimafia" di Palermo abbia pensato di promuovere quale Direttore degli Affari Penali, una Procura Nazionale Antimafia e che questo sia stato uno dei motivi della sua morte. In realtà, come in molte altre vicende italiane, lo Stato non è riuscito a dare una risposta all'interrogativo del cui prodest in merito all'uccisione di Falcone. Quello che, tuttavia, è abbastanza certo è che la creazione di una Procura Nazionale Antimafia per Falcone non significava creare una scala gerarchica tra le Distrettuali Antimafia sparse sul territorio ma semmai la creazione di una sezione specializzata che, attraverso la conoscenza dei suoi addetti fosse più in grado di contrastare organicamente il fenomeno. Nulla quindi di inquietante rispetto all'impegno dello Stato nella lotta alla mafia, semmai una maggiore adeguatezza dell'apparato investigativo rispetto al fenomeno mafioso certamente più difficile da indagare rispetto al singolo reato arrivato all'attenzione delle procure. Allo stesso modo, finalmente, una vittoria sul piano legislativo rispetto a molte troppe sentenze "ammazzate" in Cassazione anche a causa della mancanza di un'unicità del Giudice Istruttore. Nell'Italia Repubblicana, quindi, un processo di unificazione e di razionalizzazione dell'attività delle Procure, seppure con specifico riferimento al fenomeno mafioso esisteva e tale precedente legislativo non aveva, ovviamente, mai immaginato di strutturare gerarchicamente l'azione penale di tale procura posto che lo scopo del legislatore era quello di maggiormente dotare l'apparato investigativo rispetto al fenomeno. Nessun riferimento quindi a esperienze pre-repubblicane quali potevano essere considerate la legge n. 2008 del 25/11/1926: “Provvedimenti per la Difesa dello Stato” in cui si affermava soprattutto l'esclusione di ogni ricorso o altro mezzo di impugnazione, sancita nel penultimo capoverso dell'art. 7. Ovvero per andare ancora a ritroso nell'esperienza italiana di metà ottocento al caso del Piemonte, rispetto al quale, il decreto del 1814 di Vittorio Emanuele I abrogava tutti i provvedimenti presi durante il periodo napoleonico e reintroduceva il sistema delle giurisdizioni feudali che sarà abolita soltanto nel 1822 allorché sarà introdotta una magistratura gerarchicamente centralizzata suddivisa in un ordine minore di giurisdizione locale, i giudici di mandamento, aperta ai laureati in diritto, temporanea ed onoraria ed una superiore strutturata secondo un criterio di cooptazione nell’ambito dell’aristocrazia e comunque di categorie di persone che potessero garantirsi ampiamente il sostentamento al di fuori dello stipendio. Tanto nell’ordinamento napoletano che in quello piemontese dell’epoca era prevista l’inamovibilità del giudice dalla sua sede tranne che per motivi disciplinari ed in entrambi furono previsti meccanismi meritocratici e controllo ministeriale. Nessun riferimento quindi, in quel precedente repubblicano, ad una gerarchizzazione della DDA. D'altra parte per come affermava lo scrittore Alfredo Panzini: “la gerarchia è una regolata subordinazione ai capi. Uno dei principi del fascismo. Titolo significativo di 'rivista' fondata da Benito Mussolini (1922) e quella del Croce, che la paragona direttamente allo “squadrismo”, vale a dire “l'insieme degli esponenti dei più alti gradi della gerarchia fascista” .A parte considerazioni di tipo politico era impossibile che l'istituzione della Procura Nazionale Antimafia potesse creare una gerarchizzazione tra i vari magistrati posto che l'art. 107 della Costituzione Italiana stabilisce che i magistrati si distinguono tra loro soltanto per diversità di funzioni (funzione giudicante propria del giudice e funzione requirente propria del pubblico ministero). Ciò implica che, con l'indipendenza "interna", la Magistratura dovrebbe essere priva di una organizzazione gerarchica in senso tecnico, essendo il potere giudiziario esercitato in modo "diffuso" da ciascun magistrato nell'ambito della funzione svolta. Quindi la Costituzione Repubblicana impediva ed impedisce di creare gerarchie "interne" alla Magistratura. Sulla base di tale dettato normativo tuttavia nella passata legislatura si sono poste norme contrarie al dettato costituzionale e sulla base di tale legge delega è stato poi compiuto il capolavoro giuridico dall'attuale governo.E' stato invero emanato il Dlgs 106/06 il cui art. 2 recita testualmente "Titolarità dell'azione penale" 1. Il procuratore della Repubblica e' il titolare esclusivo dell'azione penale che esercita, sotto la sua responsabilità, nei casi, nei modi e nei termini stabiliti dalla legge, personalmente ovvero delegando uno o più magistrati addetti all'ufficio. La delega può riguardare la trattazione di uno o più procedimenti ovvero il compimento di singoli atti di essi. Sono fatte salve le disposizioni di cui all'articolo 70-bis del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12, e successive modificazioni. 2. Con l'atto di delega per la trattazione di un procedimento, il procuratore della Repubblica può stabilire i criteri ai quali il delegato deve attenersi nell'esercizio della stessa. Se il delegato non si attiene ai principi e criteri definiti in via generale o con la delega, ovvero insorge tra il delegato ed il procuratore della Repubblica un contrasto circa le modalità di esercizio della delega, il procuratore della Repubblica può, con provvedimento motivato, revocarla; entro dieci giorni dalla comunicazione della revoca, il delegato può presentare osservazioni scritte; subito dopo la scadenza del termine il procuratore della Repubblica trasmette il provvedimento di revoca e le eventuali osservazioni al procuratore generale presso la Corte di cassazione; il provvedimento di revoca della delega e le eventuali osservazioni del delegato sono entrambi inseriti nei rispettivi fascicoli personali. E ancor di più si è stabilito:Art. 3. Prerogative del procuratore della Repubblica in materia di misure cautelari1. Il fermo di indiziato di delitto disposto da un procuratore aggiunto o da un magistrato dell'ufficio deve essere assentito per iscritto dal procuratore della Repubblica ovvero dal procuratore aggiunto o dal magistrato appositamente delegati ai sensi dell'articolo 1, comma 4. 2. L'assenso scritto del procuratore della Repubblica, ovvero del procuratore aggiunto o del magistrato appositamente delegati ai sensi dell'articolo 1, comma 4, e' necessario anche per la richiesta di misure cautelari personali e per la richiesta di misure cautelari reali. Per effetto di tali norme è svanita quindi ogni valutazione da parte dei sostituti Procuratori della Repubblica i quali non sono più titolari dell'azione penale ma semplici delegati del Procuratore della Repubblica che controlla e dirige il loro operato potendo non dare assenso scritto a richieste di misure cautelari e reali. In altri termini nessun sostituto procuratore della Repubblica può, con valutazione autonoma, richiedere misure cautelari reali o personali dovendo tali misure essere necessariamente controfirmate ( rectius: assentite) dal Procuratore della Repubblica o dal Procuratore Aggiunto. Vi chiederete cosa importa ad una associazione antimafia questo problema. La risposta è veramente molto semplice: in un paese in cui è diffusa la convinzione della possibile impunità dai reati per effetto del difficile funzionamento della giustizia penale ( per non parlare dei problemi di quella civile o amministrativa)a cui consegue un atteggiamento di diffuso scoramento delle forze dell'ordine sempre più imbrigliate nella repressione dei reati era da considerarsi veramente utile ai fini del funzionamento della giustizia la gerarchizzazione delle procure? E' accettabile in uno stato di diritto che una norma che contrasta con l'art. 107 Cost. sia entrata in vigore e abbia anche trovato concreta e pratica applicazione? Ma soprattutto la norma in questione trova applicazione anche con riferimento alle Procure Antimafia? "La lotta alla mafia non può fermarsi a una sola stanza, la lotta alla mafia deve coinvolgere l’intero palazzo. All’opera del muratore deve affiancarsi quella dell’ingegnere. Se pulisci una stanza non puoi ignorare che altre stanze possono essere sporche, che magari l’ascensore non funziona, che non ci sono le scale….. Io vado a Roma per contribuire a costruire il palazzo" (Giovanni Falcone, da La Repubblica, 1 marzo 1991) Francesco Siciliano
L'Italia dell'Antimafia - Parte terza: Le assoluzioni e l’ipocrisia delle riabilitazioni di Francesco Siciliano sabato 05 gennaio 2008 Il processo penale è per definizione una scansione di atti e provvedimenti che portano all’emanazione di un provvedimento finale quale la sentenza in cui i giudici, chiamati a decidere, devono trasfondere il loro libero convincimento. Tale provvedimento finale, tuttavia, si fonda sul convincimento del Giudice che deve formarsi sulla prova di colpevolezza o meno che si riesce a raggiungere all’interno appunto del processo. Tutti questi elementi si formano all’interno del processo dove, necessariamente, esistono delle regole formali che le parti sono chiamate a rispettare pena l’annullamento della prova ovvero della sentenza che si basa su quella. Allo stesso modo il processo penale, così come le indagini di polizia giudiziaria, sono ricostruzioni ex post di fatti che, per giungere ad un giudizio di colpevolezza devono – in assenza di confessioni del reo-, tra l’altro, trovare conforto in una ricostruzione coerente del fatto e in una motivazione logica del giudizio di colpevolezza. Tanto, e per fortuna, lo si deve alle regole democratiche della stato di diritto e alla necessità che, soprattutto, nella materia della libertà personale il giudizio trovato all’interno del processo rappresenti, sotto il profilo della categoria scientifica della probabilità e della veridicità, un giudizio quanto più possibile prossimo alla verità reale che è cosa necessariamente vicina alla verità processuale, questo proprio perché la seconda è ricostruzione ex post che segue le leggi della probabilità e non della certezza. Accade così molto spesso, ma ciò è assolutamente indispensabile per un sistema giuridico maturo, che la ricostruzione di fatti possa mutare in diversi gradi di giudizio così come che, ferma la ricostruzione dei fatti, possa mutare il giudizio di colpevolezza a carico di imputati in funzione dell’iter logico motivazionale seguito dai giudici investiti di quella valutazione. Il curioso di informazione in merito alle vicende del diritto deve sempre partire dal presupposto che la situazione sopra esposta è una normalità poiché ogni uomo nel suo libero convincimento ed in funzione della propria preparazione giuridica può arrivare a diversi risultati pur valutando il medesimo fatto o la medesima ricostruzione ex post di fatti. Così come, allo stesso modo, quel curioso deve porre attenzione alla circostanza che le leggi dello stato, soprattutto in materia penale, impongono di rendere chiari e inequivocabili i comportamenti che si possono considerare reati e le regole necessarie per stabilirlo ( c.d. tipicità della fattispecie criminosa). Accade quindi che un comportamento o un insieme di comportamenti, all’interno del processo penale, devono essere riguardati con riferimento ad una condotta descritta nella legge come reato al fine di potere emettere una sentenza di condanna non essendo possibile che se quel comportamento cessa di avere validità ai fini di un giudizio di colpevolezza con riferimento a quello preso in considerazione, possa essere emessa comunque una sentenza di colpevolezza. L’argomento è già di per sé molto complesso per poterlo affrontare con estrema semplicità ma in realtà sto cercando di dire che ciò che può apparire “colpevole” a quel curioso del diritto spesso non è così rilevante se riguardato come condotta da valutare ai fini di una condanna per un reato previsto dalla legge e, pertanto, tipizzato dal codice ( per tipizzato si intende scandito da formule legislative c.d. precetto e sanzione). Questa situazione già di per sé estremamente difficile ( non si può ovviamente pensare che le fattispecie criminose siano tutte “semplici” come il furto o l’omicidio) lo diviene ancora di più quando il giudizio investe fattispecie complesse come può essere quella del reato associativo di tipo mafioso. In questo caso l’opera enorme della dottrina e in particolare della giurisprudenza ( proprio nel rispetto del famoso brocardo nulla poena sine lege) , tende a tipizzare tutte le componenti di un reato quale quello associativo che ha struttura c.d. prulisoggettiva e necessità quindi della caratterizzazione dei ruoli associativi, del dolo di partecipazione ecc.. Tutte necessità queste sacrosante e imposte dal richiamato principio di civiltà giuridica probabilmente molto più datato vista la lingua in cui era stato scritto rispetto al più comunemente sbandierato “garantismo”. Questo sbarramento di civiltà giuridica impedisce quindi di arrivare a sentenze di condanna per fatti che non rientrano perfettamente nei predetti comportamenti tipizzati dalla legge e dall’opera dell’interprete. Accade anche poi che, come prima richiamato, tutta la valutazione dei predetti comportamenti penalmente rilevanti e sovrapponibili a quelli che il legislatore ha tipizzato debbano essere provati all’interno delle regole processuali pena l’impossibilità di giungere ad un giudizio di colpevolezza se la prova raggiunta su un singolo comportamento sia stata acquisita senza il rispetto di quelle regole. Anche qui vi è la necessità di un maturo stato di diritto quale quella della certezza che il processo sia scandito da regole certe che garantiscano sia l’imputato che l’esercizio del potere punitivo statuale. Emblematico in questo ragionamento è il caso di chi, condannato per un reato, si veda riconosciuta in Cassazione la sua non colpevolezza per effetto dell’inutilizzabilità di una prova, non perché non raggiunta, ma perché ricavata con lesione di regole processuali o sostanziali che la rendono di fatto inutilizzabile e quindi da non porre a base di una motivazione di colpevolezza. Questo molto sinteticamente il quadro delle vicende che interessano i processi penali, ovviamente, avendo riguardo a casi di questo tipo, a situazioni cioè in cui le assoluzioni non derivino dall’accertamento di un errore giudiziario ( cosa anch’essa, purtroppo, fisiologica in un sistema di grandi numeri) bensì, appunto, dall’individuazioni di errori procedurali nell’acquisizioni di prove poste a base di un giudizio di colpevolezza. In un maturo e moderno stato di diritto, tuttavia, il sistema di convivenza civile e democratica non si basa esclusivamente sull’esercizio della funzione giurisdizionale regolatrice di conflitti o esercente il potere punitivo, ma richiede necessariamente anche un’altrettanto maturo esercizio della funzione legislativa e, fuori dai poteri dello stato, un corretto esercizio del diritto di cronaca che è esercizio di un diritto costituzionalmente garantito. Nel campo dell’informazione, che è poi quello in cui la quasi totalità dei cittadini può trovare una risposta alla propria voglia di sapere del mondo in cui vive è quindi necessario che si dia conto non tanto degli errori giudiziari a fini delegittimanti ma che, nell’esercizio del dovere di informare, si cerchi il più possibile di ricercare la verità dell’informazione. Verità dell’informazione che poi, sulla base delle proprie scelte, può arrivare a qualsiasi opinione ma che non può prescindere dalla rappresentazione dei fatti, quando di questo si tratti, ovvero dalle specificità tecniche che portano ad un giudizio di colpevolezza o di assoluzione nei casi più intricati come può essere quello dei reati associativi soprattutto con riferimento alla figura del concorrente episodico ed eventuale dell’associazione di tipo mafioso. L’informazione, infatti, dovrebbe cercare il più possibile di raccontare la verità delle cose al fine di formare realmente nei cittadini una coscienza della propria storia e del proprio tempo. Dovrebbe quindi essere necessario ad esempio scrivere sulle testate giornalistiche che tizio è stato assolto dal reato di concorso esterno in associazione mafiosa perché si è stabilito in grado definitivo che questi non ha svolto alcuna opera di “fiancheggiamento” dell’associazione mafiosa così come si dovrebbe avere il rigore morale di scrivere sempre sulle medesime testate che caio è stato assolto da quella imputazione poichè le prove che ne dimostravano la colpevolezza sono state ritenute inutilizzabili. Questo perché fermo restando la definitiva assoluzione di caio da comportamenti penalmente rilevanti rispetto alle ipotesi di accusa si possa discernere tra chi si è trovato suo malgrado a subire un giudizio di colpevolezza sbagliato e chi ha subito una formazione sbagliata del giudizio di colpevolezza. Un’opera di questo tipo consentirebbe forse, nel delicato settore di cui questa associazione si occupa, di discernere, sotto il profilo del giudizio non penale, tra le assoluzioni e le riabilitazioni. Forse chiunque ha bisogno di capire la verità della propria storia che poi è la storia del suo paese spesso e troppe volte raccontata partendo da un fine precostituito. Avv. Francesco Siciliano
L’Italia dell’Antimafia – Parte quarta: La legislazione premiale, il tentativo, i pentiti. di Francesco Siciliano mercoledì 13 febbraio 2008 Chiunque decida di studiare giurisprudenza entra, se vuole provare a cogliere il senso del proprio percorso di studi, in un circuito che implica percezione e valutazioni sul convivere civile e su molte cose che sembrerebbero ovvie che spesso trova limpidamente descritte in pochi capoversi di una norma di legge. Questo è per esempio il senso di molte definizioni legislative di tanti fatti quotidiani, quali ad esempio il possedere e potere distruggere la cosa di cui si ha proprietà. Allo stesso modo, nella specificità di ognuno, lo studente di giurisprudenza subisce il fascino più o meno forte di specifici settori del diritto per la forza che il sistema, quando lo si coglie, riesce ad imprimere al proprio raggiunto sapere. Accade così che molti insegnamenti universitari rimangano scolpiti nel laureato in giurisprudenza in modo immutabile in modo cioè che sia dia successivamente per scontato che per alcune fattispecie ( casi concreti) di tipo simile a quelle studiate durante gli anni vaghi della preparazione universitaria si crede che non si possa dare una risposta diversa da quella appresa su libri e testi di legge a volte millenari. Accade così che per chi ha subito il fascino particolare del diritto penale si scolpiscano nella sue mente alcuni dati pacifici quasi come il due più due quattro che è patrimonio di ognuno anche nel senso di volere esprimere un fatto incontrovertibile. In questa prospettiva si inserisce il caso dell’istituto del delitto tentato. Il tentativo è un istituto che sin dai primi anni dell’università stampa nella mente del futuro operatore del diritto alcuni concetti fondamentali: il momento dell’ideazione del reato e il momento della consumazione. L’inesperto studente di giurisprudenza, tuttavia, apprende, altresì, che nel nostro ordinamento è necessario che sia punito anche il reato non commesso ma tentato e su questa necessità legge e studia molte considerazioni dottrinarie che, attraverso l’individuazione del pericolo al bene tutelato dalla norma che discende dal tentativo, giustificano la necessità che sia punito anche il tentativo. Il tentativo quindi come insieme di atti che inequivocabilmente denotano l’intenzione dell’agente di commettere il reato è punibile nel nostro ordinamento. Sempre l’inesperto studente di giurisprudenza apprende, tuttavia, immediatamente dopo che, ferma la punibilità del tentativo, l’ordinamento offre un “ponte d’oro” al reo che desiste dall’azione o ancor di più che impedisca l’evento del reato. Il dettato normativo è, altresì, chiaro nell’indicare che quel ponte d’oro non è offerto in base ad un pentimento o ad una spontaneità della desistenza o del ravvedimento operoso ma è offerto in base alla sola circostanza che il reo abbia abbandonato per qualsivoglia motivo l’azione delittuosa o ne abbia impedito l’evento. Lo studente di giurisprudenza, pertanto, coglie in maniera indelebile due considerazioni: l’esistenza di tale istituto sin dal Codice Zanardelli, e prima ancora dal Codice Napoleonico, e , soprattutto, la scelta del legislatore di premiare ( sotto forma di sconto di pena) il reo che si arresti ad un certo momento del suo progetto criminoso ovvero quello che si attivi per impedire l’evento. Acquisizione, quindi, di un dato incontrovertibile, il legislatore penale non postula giudizi morali ovvero richiede pentimenti, egli concede il “premio” per effetto del risultato che si raggiunge con il pentimento o la desistenza del reo basti che questa scelta sia volontaria. Nessuna indagine dunque sulle ragioni morali della scelta né sulla personalità del reo. Distinta è l’ipotesi dell’art. 62 n. 6 in cui si ripone molta attenzione al comportamento del reo al fine di verificare l’effettivo mutamento di personalità e di pericolosità sociale. Un dato quindi acquisito è che il legislatore sin da tempi molto remoti premia il reo qualora il fatto reato non si compia o se ne attenuino gli effetti. Lo studente di giurisprudenza quindi ritiene logico e coerente che il legislatore usi il premio quale mezzo di tutela del bene giuridico sotteso alla norma e come forme di contrasto alla commissione di reati. Nulla questio quindi sulla validità di tale legislazione. Si ritrovano così nei tempi più recenti normazioni quali la legge 14 ottobre 1974 n. 497, con cui l'art. 630 c.p. viene modificato mediante la previsione, per l'agente o il concorrente che si fosse adoperato in modo da consentire alla vittima di riacquistare la libertà senza il pagamento del riscatto, dell'applicazione delle pene previste per il delitto di sequestro di persona (art. 605 c.p.) ( norma premiante, questa, poi riprodotta dal decreto legge 21/03/1978 n. 59, convertito con modificazioni nella legge 18/05/1978, seppur limitatamente al concorrente [operando quindi una restrizione dell'operatività di essa] e con l'aggiunta del requisito ulteriore della dissociazione, ed infine accolta nel testo vigente, al comma 4 a seguito della legge 30/12/1980 n. 894). Allo stesso modo, negli anni '70, caratterizzati da una serie di attentati terroristici culminati col sequestro dell' On. Aldo Moro si è assistito a vari esempi di legislazione premiale. Infatti, pochi giorni dopo il dell'On Moro, fu emanato il d.l. 21 marzo 1978 n. 59, il quale riscriveva l'art. 630 c.p., rubricandolo "sequestro di persona a scopo di estorsione, di terrorismo o di eversione" e nella legge di conversione 18 maggio 1978 n. 191 si introdusse la nuova figura del sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione, disciplinata dall'art. 289-bis c.p., lasciando l'art. 630 per il sequestro estorsivo. In quel caso sembrò scontato il ricorso alla legislazione premiale basti pensare agli articoli 4 e 5 del d.l. 15 dicembre 1979 n. 625, convertito dalla legge n. 15/1980 agli artt. 1, 2, 3 e 5 della legge 304/1982 ed, infine, all'art. 1 della legge 34/1987. Ovviamente in quel caso come in altri si assistette, per un verso, alla configurazione di nuove ipotesi di delitto (artt. 270-bis e 280 c.p. rispettivamente introdotti con gli artt. 2 e 3 del d.l. 625/1979) e di una nuove circostanze aggravanti (quella della "finalità di terrorismo o di eversione dell'ordine democratico", ipotizzata nell'art. 1 del decreto legge in questione), così come, dall’altro, ad inasprimenti in ordine ai provvedimenti relativi alla libertà personale degli imputati. In quella fase di emergenza sembrò naturale che si offrissero sia reali incentivi a contrastare il consolidarsi dell'intento delittuoso sia, soprattutto, l’effetto dato da tali controstimoli di riuscire a scompaginare dall'interno i gruppi terroristici rendendo particolarmente conveniente la collaborazione con lo stato. Tutto questo, a quello studente di giurisprudenza che aveva stampato nella mente l’art. 56 del suo esame di diritto penale appariva una normale e logica scelta di politica criminale posto che sin dai tempi remoti il diritto penali offre sconti a chi desiste dall’azione criminale. Tale situazione non sembrò necessaria al legislatore quando emanò la LEGGE 13 settembre 1982 n. 646 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 253 del 14 settembre 1982 - DISPOSIZIONI IN MATERIA DI MISURE DI PREVENZIONE DI CARATTERE PATRIMONIALE ED INTEGRAZIONE ALLE LEGGI 27 DICEMBRE 1956, N. 1423, 10 FEBBRAIO 1962, N. 57 E 31 MAGGIO 1965, N. 575. ISTITUZIONE DI UNA COMMISSIONE PARLAMENTARE SUL FENOMENO DELLA MAFIA) e, ciò va detto, non poteva sconvolgere più di tanto gli studenti di giurisprudenza che avevano già sostenuto l’esame di diritto penale sia perché ancora poco si sapeva del fenomeno mafioso grazie all’assoluta assenza di informazione sul tema sia perché, in ogni caso, le scelte di politica criminale sono evidentemente una valutazione legittima del legislatore. Nulla quindi di illogico; si potevano cioè fare valutazioni politiche sulla lunga gestazione della legge; sull’assenza per molti, troppi, anni della fattispecie criminosa ma nessuna valutazione di sistematicità giuridica poteva fare pensare a qualcosa di incongruente per la mancanza di un “ponte d’oro” per i rei di associazione a delinquere di stampo mafioso. Solo su un piano strettamente politico criminale si può affermare che bisognerà attendere il D.L. 13/05/1991 n. 152, convertito dalla L. 12 luglio 203/1991 perché fosse previsto un meccanismo di incentivazione della collaborazione con riferimento ai "reati di mafia", nonostante sin dai primi anni '80 alcuni magistrati, impegnati sul fronte dell'antimafia, prospettassero l'esigenza di introdurre nuove forme di intervento premiale per la criminalità organizzata non caratterizzata politicamente. Nulla di incongruente, quindi, mera scelta legislativa della quale ciascuno, sulla base della propria posizione, poteva affermarne la validità o meno. Tuttavia già in questa prima fase, sul piano strettamente giuridico, molti insigni autori (T. Padovani, E. Musco) dubitavano della validità di una legislazione premiale in tema di associazioni mafiose poiché il pentitismo e la collaborazione con lo stato non serviva a diminuire l’allarme sociale altissimo creato dalla commissione di reati di questo tipo. La legislazione in tema di antimafia, quindi, sin dalle sue origini dimostra una estrema vischiosità e si sa subisce accelerazioni o decelerazioni in funzione di fatti drammatici che aumentano l’allarme sociale per il fenomeno. Invero, in periodi di dibattiti sulla validità e sulla utilità anche sociale della legislazione premiale in tema di mafia, l’intensificazione dell'azione di contrasto al fenomeno fù dovuto anche al prezioso contributo di Giovanni Falcone, che era stato nominato nel marzo del 1991 direttore generale degli affari penali presso il ministero di grazia e giustizia, atteso che in quel periodo fù emanato il d.l. 13 maggio 1991 n. 152, convertito dalla l. 12 luglio 1991 n. 203, che disciplinò la prima fattispecie premiale per i dissociati dalle organizzazioni mafiose. Anche se, solo dopo la strage di Capaci (23 maggio 1992) venne emanato il d.l. giugno 1992 n. 306, convertito in legge subito dopo la strage di via D'Amelio (19 luglio 1992), rubricato "Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa, con cui furono introdotti, da un lato, inasprimenti per gli imputati di associazione mafiosa, e dall'altro, ulteriori benefici per i collaboratori di mafia. Principio cardine dell’istituto del pentitismo in tema di reati di mafia, costruito sulla base di un accostamento alla medesima legislazione emanata in tema di reati di terrorismo, è certamente la previsione che "per i delitti di cui all'art. 416-bis del codice penale e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni di tipo mafioso, nei confronti dell'imputato che, dissociandosi dagli altri, si adopera per evitare che l'attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori anche aiutando concretamente l'autorità di polizia o l'autorità giudiziaria nella raccolta degli elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l'individuazione o la cattura degli autori dei reati, la pena…………….. "; elemento decisivo della fattispecie legislativa è, quindi, il requisito della dissociazione, da intendersi come la rottura dal pactum sceleris con gli altri membri dell'associazione criminale a nulla rilevando il fine di colui che decide di rompere il pactum sceleris. Lo studente di giurisprudenza leggendo queste norme - purtroppo successivamente ad omicidi come quello Scopelliti o alle stragi siciliane anche a quelle antecedenti gli anni 90 – ritrova, quindi, la sua sistematicità e la logica di ciò che ha imparato all’università: quel principio scolpito nella sua mente l’art. 56 del codice penale (come già previsto nel codice napoleonico e nello zanardelli) offre un “ponte d’oro” al reo che desiste dall’azione criminale ovvero con il suo ravvedimento operoso impedisce il compimento dell’evento. Il medesimo studente di giurisprudenza, tuttavia, perde le sue sicurezze quando si ritrova a leggere di polemiche sull’istituto soprattutto quando queste provengano da altrettanti ex studenti di giurisprudenza divenuti successivamente legislatori. Ciò perché allo studente di giurisprudenza appare ovviamente logico e coerente (rectius: sistematico) che i dicasteri che si occupano dell’applicazione concreta della legislazione premiale debbano verificare in maniera inequivocabile la “convenienza” per lo stato del patto con il collaboratore così come che ci sia un controllo approfondito dell’uso delle risorse pubbliche messe a disposizione dello strumento premiale e dei collaboratori di giustizia. Ciò tuttavia non dovrebbe essere motivo per attenuare la portata dell’utilità della collaborazione che lo stato sceglie di offrire a chi contribuisce alla repressione del fenomeno mafioso. In altri termini i disservizi della scelta premiale fatta dallo stato per la repressione di un fenomeno criminale, almeno per quel modesto studente di giurisprudenza, possono e debbono essere corretti attraverso meccanismi di selezione qualitativa dei collaboratori, ovvero attraverso attività giudiziaria e pregiudiziaria di verifica della convenienza per lo stato alla stipula di quel patto, ma non possono mettere in discussione il “ponte d’oro” proprio perché l’istituito del ponte d’oro è connaturato ai codici penali moderni e premoderni. Anche la drammatica vicenda Tortora in fondo ha dimostrato la necessità dell’azione di riscontro aliunde del contributo derivante dal “premio” così come la reale pericolosità, per il crimine, di quel patto ( alludo al complotto Tortora come tentativo di bloccare sul nascere l’istituto). Tutto chiaro quindi: lo studente di giurisprudenza sa che il legislatore penale considera utile scardinare con patti (rectius: istituti premianti) i fenomeni criminali; allo stesso modo la figura dell’agente provocatore insegna che anche l’azione di contrasto spesso si avvale di persona che “si tratta di uno sporco lavoro ma qualcuno lo deve pur fare” ( Ligabue). Lo studente di giurisprudenza quindi perde la coerenza e sistematicità della sua formazione culturale quando legge Modifica della disciplina della protezione e del trattamento sanzionatorio di coloro che collaborano con la giustizia nonche' disposizioni a favore delle persone che prestano testimonianza.La legge n. 45 del 13 Febbraio 2001, G.U. n. 58 del 10 Marzo 2001 (suppl.ord.) e, soprattutto, scopre (ma lo aveva già immaginato) che successivamente accade questo: sempre quell’oramai da definirsi ingenuo studente di giurisprudenza si chiede, ma era ovvio, se si diminuisce la convenienza, i pentiti calano, non ci avevano pensato? E poi nessuno aveva letto queste dichiarazioni: “Ed è proprio questo quello che noi tecnici, che giornalmente ci confrontiamo operativamente con questi problemi, indichiamo quando parliamo di questa attenzione a corrente alternata da parte di chi deve provvedere a fornirci le strategie, i mezzi, le strutture per poter operare. Quante volte abbiamo affermato nel passato che è veramente strano che ci si accorga della presenza della mafia quando avvengono i fatti di sangue, cioè quando qualcosa ha turbato l’equilibrio interno dell’organizzazione mafiosa, e non ci si renda conto che esiste quando invece queste cose passano tranquillamente, cioè nel momento in cui la mafia è particolarmente forte. È necessario andare alla radice del fenomeno colpendo sistematicamente e permanentemente tutte le strutture portanti dell’organizzazione mafiosa in quanto tale, indipendentemente dagli altri delitti commessi; in altri termini, la mafia è un fenomeno troppo serio perché lo si possa affrontare in maniera poco seria. Chi pensa che possano esservi scorciatoie di qualsiasi tipo, chi pensa che la mafia si possa affrontare con leggi di emergenza quando è un fatto endemico di certe zone del meridione con una diffusività in tutto il territorio dello stato e all’estero, sbaglia di grosso. La collaborazione di alcuni elementi di spicco di Cosa Nostra e la conclusione di inchieste giudiziarie approfondite hanno inferto indubbiamente un duro colpo alla mafia. Ma che la celebrazione tra mille difficoltà di questi processi ha indotto Cosa Nostra ad un ripensamento di strategie certamente non ha segnato l’inizio della fine del fenomeno mafioso. Il declino della mafia, più volte annunciato, non si è verificato e non è purtroppo prevedibile nemmeno oggi. È vero che non pochi uomini d’onore, diversi dei quali di importanza primaria, sono detenuti; tuttavia i vertici di Cosa Nostra sono latitanti ed è proprio questa una delle particolari capacità della mafia, quella di modellare con prontezza ed elasticità i valori arcaici all’impero di esigenze della mafia. Se oltre a ciò si considerano la sua capacità di mimetizzazione nella società, la tremenda forza di intimidazione derivante dall’inesorabile ferocia delle punizioni inflitte ai trasgressori o a chi si oppone ai suoi disegni criminosi, l’elevato numero e la statura criminale dei suoi adepti, ci si può rendere conto dello straordinario spessore di quest’organizzazione, sempre nuova e sempre uguale a se stessa. L’organizzazione siciliana denominata Cosa Nostra è la più pericolosa esistente al mondo e spero che non ci sia nessuno che pensi che io lo dica con orgoglio di siciliano… [risa dell’interlocutore] .. perché capita anche questo, capita anche questo!(Giovanni Falcone). Qualcuno di quegli studenti di giurisprudenza comincia a chiedersi và bè è normale in tempi di “celodurismo” vedrai aboliranno anche la figura del delitto tentato. E invece no, la diminuita convenienza del pentitismo, è una riflessione culturale approfondita anche sul piano giuridico e non è assolutamente espressione di “celodurismo” così come non è espressione di celodurismo puro e crudo la posizione di chi intende istituire una commissione di inchiesta sui pentiti (Il Messaggero, 14 gennaio 2008). Alla fine di questa sommaria argomentazione sull’uso del ponte d’oro nei confronti del reo si dovrebbero cercare di trarre delle conclusioni anche propositive sulla questione. Il dato di partenza è certamente quello dell’istituto giuridico e delle sue ragioni. Nei nostro codici il legislatore sin da tempi molto remoti ha scelto di “premiare” il reo o l’associato che, senza avere alcun rilievo il motivo della sua scelta, eviti il reato ovvero contribuisca alla repressione di fenomeni criminali: ciò è un dato storico e si spera irrinunciabile; allo stesso modo errori singoli nell’uso dell’istituto ovvero singoli abusi costituenti addirittura privilegi non inficiano la bontà dell’istituto ma impongono di perseguire i singoli fatti di abuso; la legislazione premiale non può essere oggetto di commissione d’inchiesta parlamentare semmai gli abusi possono essere oggetto di processi penali qualora abbiano integrato fattispecie di reato; in tempi di celodurismo e di messaggi subliminali è auspicabile che la dottrina giuridica resti tale argomentando di istituti giuridici senza trascendere in considerazioni politiche. Ultima notazione: ho ascoltato interamente i discorsi di apertura della campagna elettorale e ho sentito parole come alzati, siediti, italiani, padani, precari, sogni, speranza, concepito, diritto all’autodeterminazione, famiglia, coppie di fatto, yes we can mentre è purtroppo scomparsa la parola mafia. Si sa la campagna elettorale è per definzione il periodo in cui si raccolgono voti. «E' normale che esista la paura, in ogni uomo, l'importante è che sia accompagnata dal coraggio. Non bisogna lasciarsi sopraffare dalla paura, altrimenti diventa un ostacolo che impedisce di andare avanti.» (Paolo Borsellino). Avv. Francesco Siciliano